sabato 11 giugno 2011

294 - Commento al vangelo di domenica 12/6/2011, Pentecoste

La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”.

Per i primi cristiani, è un giorno importante il primo della settimana perché è il giorno del Signore (Ap 1,10), è quello in cui la comunità è solita riunirsi per spezzare il pane eucaristico (At 20,7; 1 Cor 16,2). È sera.
L’indicazione temporale con cui inizia il brano evangelico è preziosa: forse indica l’ora tarda in cui i primi cristiani erano soliti ritrovarsi per la loro celebrazione.
Le porte sono sbarrate per paura dei giudei (v. 19). Gesù non aveva certo annunciato trionfi e vita facile ai suoi discepoli; “nel mondo avrete tribolazione” – aveva detto (Gv 16,33). Tuttavia la ragione principale per cui si insiste sulle porte chiuse (Gv 20,26) è teologica: Giovanni vuole far capire che il Risorto è lo stesso Gesù che gli apostoli hanno visto, conosciuto, ascoltato, toccato, ma si trova in una condizione diversa. Non è ritornato alla vita di prima (come ha fatto Lazzaro), è entrato in un’esistenza completamente nuova.
Il suo corpo non è più fatto di atomi materiali, è impercettibile alla verifica dei sensi. La risurrezione della carne non equivale alla rianimazione di un cadavere. È il misterioso sbocciare di una vita nuova da un essere che è finito. Paolo spiega questo fatto mediante l’immagine del seme. Dice che “da un corpo corruttibile risorge uno incorruttibile”, da “un corpo ignobile risorge un corpo glorioso”, da “un corpo debole risorge uno potente”, da “un corpo animale risorge uno spirituale” (1 Cor 15,42-44).
Quando Gesù mostra le mani e il costato, i discepoli gioiscono. Una reazione sorprendente: dovrebbero rattristarsi vedendo i segni della sua passione e morte. Si rallegrano invece, non perché si ritrovano davanti il Gesù che hanno accompagnato lungo le strade della Palestina, ma perché vedono il Signore (v. 20), si rendono conto che il Risorto che si sta rivelando loro è lo stesso Gesù, colui che ha donato la vita. Collocando le manifestazioni del Risorto nel contesto della sera del primo giorno della settimana, Giovanni intende dire ai cristiani delle sue comunità che anch’essi possono incontrare il Signore – non Gesù di Nazareth, con il corpo materiale che aveva in questo mondo – ma il Risorto, ogni volta che si ritrovano insieme “nel giorno del Signore”.
Dopo aver rivolto per la seconda volta l’augurio: Pace a voi! (vv. 19.21) Gesù dona ai discepoli il suo Spirito e conferisce loro il potere di rimettere i peccati (vv. 21-23). I discepoli sono inviati a compiere una missione: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Quando era nel mondo, Gesù rendeva presente il volto e l’amore del Padre (Gv 12,45), ora, lasciato questo mondo, egli continua la sua opera attraverso i discepoli ai quali consegna il suo Spirito. Accogliere lui era accogliere il Padre che lo aveva mandato, ora accogliere i suoi inviati è accogliere lui (Gv 13,20). Per comprendere la missione affidata agli apostoli, il perdono dei peccati mediante l’effusione dello Spirito dobbiamo rifarci alle concezioni religiose del popolo d’Israele e alle parole dei profeti.
Al tempo di Gesù era diffusa l’idea che gli uomini agivano male, si contaminavano con gli idoli, erano impuri perché erano mossi da uno spirito cattivo. Ci si chiedeva quando Dio sarebbe intervenuto per liberarli e per infondere in loro uno spirito buono. Nella lettera ai romani Paolo fa una descrizione drammatica della condizione infelice dell’uomo che si trova in balia dello spirito del male: “Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (Rm 7,15-19).
Per bocca dei profeti Dio promise il dono di uno spirito nuovo, del suo Spirito: “Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi” (Ez 36,25-27).
Questa effusione dello Spirito del Signore avrebbe rinnovato il mondo. Lo inonderà – disse il profeta Ezechiele – come un torrente d’acqua impetuoso che, quando entra nel deserto, lo feconda e lo trasforma in giardino. “Lungo il fiume, su una riva e sull'altra, crescerà ogni sorta di alberi da frutto, le cui fronde non appassiranno, i loro frutti non cesseranno e ogni mese matureranno, perché le loro acque sgorgano dal santuario. I loro frutti serviranno come cibo e le foglie come medicina” (Ez 47,1-12). Sono immagini deliziose che descrivono in modo mirabile l’opera vivificante dello Spirito.
Nel giorno di Pasqua si compiono queste profezie. Con un gesto simbolico – Gesù alitò su di loro – viene consegnato lo Spirito. Questo soffio richiama il momento della creazione, quando “il Signore Dio formò l’uomo dalla polvere della terra e respirò dentro le sue narici il respiro della vita” (Gn 2,7). Il soffio di Gesù crea l’uomo nuovo, l’uomo che non è più vittima delle forze che lo portano al male, ma è animato da un’energia nuova che lo spinge al bene.
Dove giunge questo Spirito il male è vinto, il peccato è perdonato – cancellato, distrutto – e nasce l’uomo nuovo modellato sulla persona di Cristo.
La missione che il Risorto affida ai suoi discepoli è di rimettere i peccati, continuando così la sua opera di “Agnello di Dio, venuto per togliere i peccati del mondo” (Gv 1,29).
Che significa rimettere i peccati? Queste parole sono state interpretate – in modo giusto, ma riduttivo – come il conferimento agli apostoli del potere di assolvere dai peccati. Non è questo però l’unico modo per rimettere, cioè, per neutralizzare, per sconfiggere il peccato. La potestà conferita da Gesù è molto più ampia e riguarda tutti i discepoli che sono animati dal suo Spirito: è quella di purificare il mondo da ogni forma di male.
I poteri non sono due – rimettere o ritenere – a discrezione del confessore che valuta caso per caso. Il potere è uno solo, quello di annientare, in tutti i modi, il peccato. Ma questo può anche essere non rimesso: se il discepolo non si impegna a creare le condizioni affinché tutti aprano il cuore all’azione dello Spirito, il peccato non viene rimesso. Di questo fallimento della missione, il discepolo è responsabile

Padre Ferdinando Armellini, biblista
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