mercoledì 30 giugno 2010

Pratica la carità senza limiti

Ama e pratica la carità, senza limiti e senza discriminazioni, perché è la virtù che ci caratterizza come discepoli del Maestro. — Tuttavia, la carità non può portarti — non sarebbe più una virtù — ad attenuare la fede, a togliere gli spigoli che la definiscono, ad addolcirla fino a trasformarla, come alcuni pretendono, in qualcosa di amorfo che non ha la forza e il potere di Dio. (Forgia, 456)

Il Signore ha preso l'iniziativa, ci è venuto incontro. Ci ha dato questo esempio, affinché con Lui ci applichiamo al servizio del prossimo, affinché — mi piace ripeterlo — stendiamo generosamente il nostro cuore sul pavimento, per consentire agli altri di camminare sul soffice, e risulti loro più gradevole la lotta ascetica. Dobbiamo comportarci così perché siamo stati resi figli del medesimo Padre, di un Padre che non ha esitato a darci il suo Figlio amatissimo.La carità non siamo noi a costruirla; ci invade con la grazia di Dio: perché è stato Lui ad amarci per primo [Cfr 1 Gv 4, 10]. È bene lasciarci compenetrare da questa bellissima verità Se possiamo amare Dio, è perché siamo stati amati da Dio [Origene, Commentarii in Epistolam ad Romanos, 4, 9].
Tu e io siamo in grado di riversare affetto su chi ci sta accanto, perché siamo nati alla fede attraverso l'amore del Padre. Domandate audacemente al Signore questo tesoro, la virtù soprannaturale della carità, per esercitarla fin nei più piccoli particolari.
Spesso noi cristiani non abbiamo saputo corrispondere a questo dono; talvolta lo abbiamo deprezzato, limitandolo a un'elemosina fredda, senz'anima; o lo abbiamo ridotto a beneficenza più o meno stereotipata. Riassume molto bene questa aberrazione il rassegnato lamento di una malata: «Qui mi trattano con 'carità', ma mia madre mi curava con affetto». L'amore che nasce dal Cuore di Cristo non può dar spazio a simili distinzioni. (Amici di Dio, nn. 228-229)
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SS. Primi martiri della Chiesa di Roma

L'odierna celebrazione, introdotta dal nuovo calendario romano universale, si riferisce ai protomartiri della Chiesa di Roma, vittime della persecuzione di Nerone in seguito all'incendio di Roma, avvenuto il 19 luglio del 64.
Dopo la festività congiunta dei due apostoli, il nuovo calendario vuole appunto celebrare la memoria dei numerosi martiri che non poterono avere un posto peculiare nella liturgia.

Perché Nerone perseguitò i cristiani? Ce lo dice Cornelio Tacito (Annales 15,44,2-5) : « Siccome circolavano voci che l'incendio di Roma fosse stato doloso, Nerone presentò come colpevoli, punendoli con pene ricercatissime, coloro che, odiati per le loro abominazioni, erano chiamati dal volgo cristiani ».

Ai tempi di Nerone, a Roma, accanto alla comunità ebraica, viveva quella esigua e pacifica dei cristiani. Su questi, poco conosciuti, circolavano voci calunniose. Nerone scaricò su di loro, condannandoli ad efferati supplizi, le accuse a lui rivolte. Del resto le idee professate dai cristiani erano di aperta sfida agli dèi pagani gelosi e vendicativi... « I pagani - ricorderà più tardi Tertulliano - attribuiscono ai cristiani ogni pubblica calamità, ogni flagello. Se le acque del Tevere escono dagli argini e invadono la città, se al contrario il Nilo non rigonfia e non inonda i campi, se vi è siccità, carestia, peste, terremoto, è tutta colpa dei cristiani, che disprezzano gli dèi, e da tutte le parti si grida: “i cristiani ai leoni!”.

Nerone ebbe la responsabilità di aver dato il via all'assurda ostilità del popolo romano, peraltro molto tollerante in materia religiosa, nei confronti dei cristiani: la ferocia con la quale colpì i presunti incendiari non trova neppure la giustificazione del supremo interesse dell'Impero. Episodi orrendi come quello delle fiaccole umane, cosparse di pece e fatte ardere nei giardini del colle Oppio, o come quello di donne e bambini vestiti con pelle di animali e lasciati in balia delle bestie feroci nel circo, furono tali da destare un senso di pietà e di orrore nello stesso popolo romano. « Allora - scrive ancora Tacito - si manifestò un sentimento di pietà, pur trattandosi di gente meritevole dei più esemplari castighi, perché si vedeva che erano eliminati non per il bene pubblico, ma per soddisfare la crudeltà di un individuo », Nerone.
La persecuzione non si arrestò a quella fatale estate del 64, ma si prolungò fino al 67.

Tacito racconta nei suoi Annali della persecuzione dei primi martiri di Roma - i protomartiri romani - nella quale fu ucciso anche Pietro. Il fatto avvenne nei giardini neroniani, cioè nel Circo di Gaio e Nerone che era alle pendici del colle Vaticano. L’attuale obelisco di piazza S. Pietro era al centro della spina di tale Circo che segnava il percorso sul quale si sfidavano le quadrighe nelle corse.

L’obelisco fu spostato da Papa Sisto V (Felice Peretti) che volle erigerlo dinanzi alla basilica. Il sito originario in cui era posto è attualmente indicato da una lapide in terra posta alla sinistra della basilica vaticana, poco oltre l’attuale nartece, che ricorda così l’ubicazione del Circo nel quale furono martirizzati Pietro ed i suoi compagni nell’anno 64 d.C..

Sul fianco destro del Circo, proprio sotto l’attuale basilica, sorgeva una necropoli a cielo aperto, nella quale Pietro venne sepolto dopo il martirio. Parte della necropoli è stata riportata alla luce dagli archeologi nel secolo scorso. Essi hanno potuto così raggiungere nei loro scavi il luogo della sepoltura del primo degli apostoli. Il sito è attualmente visitabile, con ingresso proprio a fianco del luogo dove era anticamente eretto l’obelisco.

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Lo pregarono che si allontanasse dal loro territorio

Concilio Vaticano II Constituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (Gaudium et spes),
9-10 - Copyright © Libreria Editrice Vaticana

Il mondo si presenta oggi potente a un tempo e debole, capace di operare il meglio e il peggio, mentre gli si apre dinanzi la strada della libertà o della schiavitù, del progresso o del regresso, della fraternità o dell'odio. Inoltre l'uomo prende coscienza che dipende da lui orientare bene le forze da lui stesso suscitate e che possono schiacciarlo o servirgli. Per questo si pone degli interrogativi.

In verità gli squilibri di cui soffre il mondo contemporaneo si collegano con quel più profondo squilibrio che è radicato nel cuore dell'uomo. È proprio all'interno dell'uomo che molti elementi si combattono a vicenda. Da una parte infatti, come creatura, esperimenta in mille modi i suoi limiti; d'altra parte sente di essere senza confini nelle sue aspirazioni e chiamato ad una vita superiore. Sollecitato da molte attrattive, è costretto sempre a sceglierne qualcuna e a rinunziare alle altre. Inoltre, debole e peccatore, non di rado fa quello che non vorrebbe e non fa quello che vorrebbe (Rm 7,14). Per cui soffre in se stesso una divisione, dalla quale provengono anche tante e così gravi discordie nella società...

Con tutto ciò, di fronte all'evoluzione attuale del mondo, diventano sempre più numerosi quelli che si pongono o sentono con nuova acutezza gli interrogativi più fondamentali: cos'è l'uomo? Qual è il significato del dolore, del male, della morte, che continuano a sussistere malgrado ogni progresso? Cosa valgono quelle conquiste pagate a così caro prezzo? Che apporta l'uomo alla società, e cosa può attendersi da essa? Cosa ci sarà dopo questa vita?

Ecco: la Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto, dà sempre all'uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza per rispondere alla sua altissima vocazione; né «è dato in terra un altro Nome agli uomini, mediante il quale possono essere salvati» (At 4,12). Essa crede anche di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana. Inoltre la Chiesa afferma che al di là di tutto ciò che muta stanno realtà immutabili; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che «è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli» (Eb 13,8).
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martedì 29 giugno 2010

San Pietro e San Paolo, apostoli

Coraggio! Tu... ce la fai. —Vedi che cosa ha fatto la grazia di Dio di quel Pietro dormiglione, rinnegatore e codardo..., di quel Paolo persecutore, odiatore e caparbio? (Cammino, 483)

Gli dice Pietro: Signore! Tu lavare i piedi a me? E Gesù risponde: quello che io faccio, tu adesso non lo comprendi; lo comprenderai più avanti. Pietro insiste: i piedi a me tu non li laverai mai. Gesù gli replica: se io non ti laverò, non avrai parte con me. Simon Pietro si arrende: Signore, non soltanto i piedi, ma anche le mani e la testa.

Di fronte alla chiamata a una donazione totale, completa, senza esitazioni, molte volte opponiamo una falsa modestia, come quella di Pietro... Magari fossimo anche noi uomini di cuore, come l'Apostolo! Pietro non permette a nessuno di amare Gesù più di lui.

Questo amore porta a reagire così: eccomi qui, lavami mani, testa, piedi! purificami del tutto!, perché io voglio darmi a Te senza riserve.(Solco, 266)“Pesa su di me la sollecitudine per tutte le chiese”, scriveva San Paolo; e questo sospiro dell'Apostolo ricorda a tutti i cristiani — anche a te! — la responsabilità di mettere ai piedi della Sposa di Cristo, della Santa Chiesa, ciò che siamo e ciò che possiamo, amandola fedelissimamente, anche a costo dei propri averi, dell'onore e della vita. (Forgia, 584)
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SS. Pietro e Paolo

Apostoli e martiri

Dall’Omelia di Papa Benedetto XVI (Basilica Vaticana, 29 giugno 2008)

Cari fratelli e sorelle!

Fin dai tempi più antichi la Chiesa di Roma celebra la solennità dei grandi Apostoli Pietro e Paolo come unica festa nello stesso giorno, il 29 giugno. Attraverso il loro martirio, essi sono diventati fratelli; insieme sono i fondatori della nuova Roma cristiana. Come tali li canta l’inno dei secondi Vespri che risale a Paolino di Aquileia († 806): « O Roma felix - Roma felice, adornata di porpora dal sangue prezioso di Principi tanto grandi. Tu superi ogni bellezza del mondo, non per merito tuo, ma per il merito dei santi che hai ucciso con la spada sanguinante ». Il sangue dei martiri non invoca vendetta, ma riconcilia. Non si presenta come accusa, ma come “luce aurea”, secondo le parole dell’inno dei primi Vespri: si presenta come forza dell’amore che supera l’odio e la violenza, fondando così una nuova città, una nuova comunità. Per il loro martirio, essi - Pietro e Paolo - fanno adesso parte di Roma: mediante il martirio anche Pietro è diventato cittadino romano per sempre. Mediante il martirio, mediante la loro fede e il loro amore, i due Apostoli indicano dove sta la vera speranza, e sono fondatori di un nuovo genere di città, che deve formarsi sempre di nuovo in mezzo alla vecchia città umana, la quale resta minacciata dalle forze contrarie del peccato e dell’egoismo degli uomini.

In virtù del loro martirio, Pietro e Paolo sono in reciproco rapporto per sempre. Un’immagine preferita dell’iconografia cristiana è l’abbraccio dei due Apostoli in cammino verso il martirio. Possiamo dire: il loro stesso martirio, nel più profondo, è la realizzazione di un abbraccio fraterno. Essi muoiono per l’unico Cristo e, nella testimonianza per la quale danno la vita, sono una cosa sola. Negli scritti del Nuovo Testamento possiamo, per così dire, seguire lo sviluppo del loro abbraccio, questo fare unità nella testimonianza e nella missione. Tutto inizia quando Paolo, tre anni dopo la sua conversione, va a Gerusalemme, “per consultare Cefa” (Gal 1,18). Quattordici anni dopo, egli sale di nuovo a Gerusalemme, per esporre “alle persone più ragguardevoli” il Vangelo che egli predica, per non trovarsi nel rischio “di correre o di aver corso invano” (Gal 2,1s). Alla fine di questo incontro, Giacomo, Cefa e Giovanni gli danno la destra, confermando così la comunione che li congiunge nell’unico Vangelo di Gesù Cristo (Gal 2,9). Un bel segno di questo interiore abbraccio in crescita, che si sviluppa nonostante la diversità dei temperamenti e dei compiti, lo trovo nel fatto che i collaboratori menzionati alla fine della Prima Lettera di S. Pietro - Silvano e Marco - sono collaboratori altrettanto stretti di san Paolo. Nella comunanza dei collaboratori si rende visibile in modo molto concreto la comunione dell’unica Chiesa, l’abbraccio dei grandi Apostoli.

Almeno due volte Pietro e Paolo si sono incontrati a Gerusalemme; alla fine il percorso di ambedue sbocca a Roma. Perché? È questo forse qualcosa di più di un puro caso? Vi è contenuto forse un messaggio duraturo? Paolo arrivò a Roma come prigioniero, ma allo stesso tempo come cittadino romano che, dopo l’arresto in Gerusalemme, proprio in quanto tale aveva fatto ricorso all’imperatore, al cui tribunale fu portato. Ma in un senso ancora più profondo, Paolo è venuto volontariamente a Roma. Mediante la più importante delle sue Lettere si era già avvicinato interiormente a questa città: alla Chiesa in Roma aveva indirizzato lo scritto che più di ogni altro è la sintesi dell’intero suo annuncio e della sua fede. Nel saluto iniziale della Lettera dice che della fede dei cristiani di Roma parla tutto il mondo e che questa fede, quindi, è nota ovunque come esemplare (Rm 1,8). E scrive poi: « Non voglio pertanto che ignoriate, fratelli, che più volte mi sono proposto di venire fino a voi, ma finora ne sono stato impedito » (1,13). Alla fine della Lettera riprende questo tema parlando ora del suo progetto di andare fino in Spagna. « Quando andrò in Spagna spero, passando, di vedervi, e di esser da voi aiutato per recarmi in quella regione, dopo avere goduto un poco della vostra presenza » (15,24). « E so che, giungendo presso di voi, verrò con la pienezza della benedizione di Cristo » (15,29). Sono due cose che qui si rendono evidenti: Roma è per Paolo una tappa sulla via verso la Spagna, cioè - secondo il suo concetto del mondo - verso il lembo estremo della terra. Considera sua missione la realizzazione del compito ricevuto da Cristo di portare il Vangelo sino agli estremi confini del mondo. In questo percorso ci sta Roma. [...]
Ma perché Pietro è andato a Roma? Su ciò il Nuovo Testamento non si pronuncia in modo diretto. [...]

Certo, nella Lettera ai Galati Paolo dice che Dio ha dato a Pietro la forza per il ministero apostolico tra i circoncisi, a lui, Paolo, invece per il ministero tra i pagani (2,8). Ma questa assegnazione poteva essere in vigore soltanto finché Pietro rimaneva con i Dodici a Gerusalemme nella speranza che tutto Israele aderisse a Cristo. Di fronte all’ulteriore sviluppo, i Dodici riconobbero l’ora in cui anch’essi dovevano incamminarsi verso il mondo intero, per annunciargli il Vangelo. Pietro che, secondo l’ordine di Dio, per primo aveva aperto la porta ai pagani lascia ora la presidenza della Chiesa cristiano-giudaica a Giacomo il minore, per dedicarsi alla sua vera missione: al ministero per l’unità dell’unica Chiesa di Dio formata da giudei e pagani. Il desiderio di san Paolo di andare a Roma sottolinea – come abbiamo visto – tra le caratteristiche della Chiesa soprattutto la parola “catholica”. Il cammino di san Pietro verso Roma, come rappresentante dei popoli del mondo, sta soprattutto sotto la parola “una”: il suo compito è di creare l’unità della catholica, della Chiesa formata da giudei e pagani, della Chiesa di tutti i popoli. Ed è questa la missione permanente di Pietro: far sì che la Chiesa non si identifichi mai con una sola nazione, con una sola cultura o con un solo Stato. Che sia sempre la Chiesa di tutti. Che riunisca l’umanità al di là di ogni frontiera e, in mezzo alle divisioni di questo mondo, renda presente la pace di Dio, la forza riconciliatrice del suo amore. [...] Amen.

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Su questa pietra, edificherò la mia Chiesa

Aelredo di Rievaulx ( 1110-1167), monaco cistercense inglese
Per la festa dei Santi Pietro e Paolo. Omelia XVI, PL 195, 298-302

Tutti gli Apostoli sono colonne della terra (Sal 75, 4), però in primo luogo, coloro di cui celebriamo la solennità. Sono le due colonne che sostengono la Chiesa con il loro insegnamento, la loro preghiera e l'esempio della loro costanza. Il Signore stesso ha fondato queste colonne. Prima, erano deboli e non potevano portare né loro, né gli altri. E a questo punto, appare il grande disegno del Signore : Se fossero stati sempre forti, si sarebbe potuto pensare che la loro forza veniva da loro stessi. Perciò il Signore, prima di affermare loro, ha voluto mostrare quanto erano capaci, affinché tutti sappiano che la loro forza veniva da Dio.

Il Signore stesso ha fondato queste colonne, cioè la Santa Chiesa. Ecco perché dobbiamo lodare con tutto il cuore questi nostri santi padri che hanno sopportato tanta fatica per il Signore e hanno perseverato con tanta forza. È niente perseverare nella gioia, nella prosperità e la pazienza. È grande invece essere lapidato, flagellato, schiaffeggiato per il Cristo, e in tutto ciò, perseverare col Cristo (2 Cor 11, 25). È grande, con Paolo, essere maledetto e benedire...essere la feccia del mondo e tirarne gloria (1 Cor 4, 12-13). E cosa dire di Pietro ? Anche se non avesse sopportato nulla per il Cristo, basterebbe per festeggiarlo il fatto che oggi sia stato crocifisso per lui. La croce fu la sua strada.
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lunedì 28 giugno 2010

Imparare a fare il bene

Quando sei insieme a una persona, devi vedere un'anima: un'anima da aiutare, un'anima da comprendere, un'anima con cui convivere e che va salvata. (Forgia, 573)

Mi piace raccogliere queste parole, che lo Spirito Santo ci ha comunicato per mezzo del profeta Isaia: Discite benefacere [Is 1, 17], imparate a fare il bene.
La carità verso il prossimo è una manifestazione dell'amore verso Dio. Pertanto, nello sforzo per migliorare in questa virtù, non possiamo fissarci alcun limite.
Con il Signore, l'unica misura è amare senza misura. Da una parte, perché non riusciremo mai a contraccambiare ciò che Egli ha fatto per noi; dall'altra, perché anche l'amore di Dio per le creature si manifesta così: sovrabbondante, senza calcoli, senza confini.
La misericordia non si limita a un mero atteggiamento di compassione: la misericordia è sovrabbondanza di carità che, simultaneamente, comporta sovrabbondanza di giustizia.
Misericordia vuoi dire mantenere il cuore in carne viva, umanamente e soprannaturalmente pervaso da un amore forte, abnegato, generoso. (Amici di Dio, 232)
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S. Ireneo di Lione

Vescovo

Dalla Catechesi di Papa Benedetto XVI (Mercoledì, 28 marzo 2007)

Cari fratelli e sorelle,
nelle catechesi sulle grandi figure della Chiesa dei primi secoli arriviamo oggi alla personalità eminente di S. Ireneo di Lione. Le notizie biografiche su di lui provengono dalla sua stessa testimonianza, tramandata a noi da Eusebio nel quinto libro della Storia Ecclesiastica. Ireneo nacque con tutta probabilità a Smirne (oggi Izmir, in Turchia) verso il 135-140, dove ancor giovane fu alla scuola del Vescovo Policarpo, discepolo a sua volta dell’apostolo Giovanni. Non sappiamo quando si trasferì dall’Asia Minore in Gallia, ma lo spostamento dovette coincidere con i primi sviluppi della comunità cristiana di Lione: qui, nel 177, troviamo Ireneo annoverato nel collegio dei presbiteri. Proprio in quell’anno egli fu mandato a Roma, latore di una lettera della comunità di Lione al Papa Eleuterio. La missione romana sottrasse Ireneo alla persecuzione di Marco Aurelio, nella quale caddero almeno quarantotto martiri, tra cui lo stesso Vescovo di Lione, il novantenne Potino, morto di maltrattamenti in carcere. Così, al suo ritorno, Ireneo fu eletto Vescovo della città. Il nuovo Pastore si dedicò totalmente al ministero episcopale, che si concluse verso il 202-203, forse con il martirio.
Ireneo è innanzitutto un uomo di fede e un Pastore. Del buon Pastore ha il senso della misura, la ricchezza della dottrina, l’ardore missionario. Come scrittore, persegue un duplice scopo: difendere la vera dottrina dagli assalti degli eretici, ed esporre con chiarezza le verità della fede.

A questi fini corrispondono esattamente le due opere che di lui ci rimangono: i cinque libri Contro le eresie, e l’Esposizione della predicazione apostolica (che si può anche chiamare il più antico “catechismo della dottrina cristiana”). In definitiva, Ireneo è il campione della lotta contro le eresie. La Chiesa del II secolo era minacciata dalla cosiddetta gnosi, una dottrina la quale affermava che la fede insegnata nella Chiesa sarebbe solo un simbolismo per i semplici, che non sono in grado di capire cose difficili; invece, gli iniziati, gli intellettuali - gnostici, si chiamavano - avrebbero capito quanto sta dietro questi simboli, e così avrebbero formato un cristianesimo elitario, intellettualista. Ovviamente questo cristianesimo intellettualista si frammentava sempre più in diverse correnti con pensieri spesso strani e stravaganti, ma attraenti per molti. Un elemento comune di queste diverse correnti era il dualismo, cioè si negava la fede nell’unico Dio Padre di tutti, Creatore e Salvatore dell’uomo e del mondo. Per spiegare il male nel mondo, essi affermavano l’esistenza, accanto al Dio buono, di un principio negativo. Questo principio negativo avrebbe prodotto le cose materiali, la materia.

Radicandosi saldamente nella dottrina biblica della creazione, Ireneo confuta il dualismo e il pessimismo gnostico che svalutavano le realtà corporee. Egli rivendicava decisamente l’originaria santità della materia, del corpo, della carne, non meno che dello spirito. Ma la sua opera va ben oltre la confutazione dell’eresia: si può dire infatti che egli si presenta come il primo grande teologo della Chiesa, che ha creato la teologia sistematica; egli stesso parla del sistema della teologia, cioè dell’interna coerenza di tutta la fede. Al centro della sua dottrina sta la questione della “Regola della fede” e della sua trasmissione. Per Ireneo la “Regola della fede” coincide in pratica con il Credo degli Apostoli, e ci dà la chiave per interpretare il Vangelo. Il Simbolo apostolico, che è una sorta di sintesi del Vangelo, ci aiuta a capire che cosa vuol dire, come dobbiamo leggere il Vangelo stesso.

Di fatto il Vangelo predicato da Ireneo è quello che egli ha ricevuto da Policarpo, Vescovo di Smirne, e il Vangelo di Policarpo risale all’apostolo Giovanni, di cui Policarpo era discepolo. E così il vero insegnamento non è quello inventato dagli intellettuali al di là della fede semplice della Chiesa. Il vero Evangelo è quello impartito dai Vescovi, che lo hanno ricevuto in una catena ininterrotta dagli Apostoli. Questi non hanno insegnato altro che questa fede semplice, che è anche la vera profondità della rivelazione di Dio. Così - ci dice Ireneo - non c’è una dottrina segreta dietro il comune Credo della Chiesa. Non esiste un cristianesimo superiore per intellettuali. La fede pubblicamente confessata dalla Chiesa è la fede comune di tutti. Solo questa fede è apostolica, viene dagli Apostoli, cioè da Gesù e da Dio. Aderendo a questa fede trasmessa pubblicamente dagli Apostoli ai loro successori, i cristiani devono osservare quanto i Vescovi dicono, devono considerare specialmente l’insegnamento della Chiesa di Roma, preminente e antichissima. Questa Chiesa, a causa della sua antichità, ha la maggiore apostolicità, infatti trae origine dalle colonne del Collegio apostolico, Pietro e Paolo. Con la Chiesa di Roma devono accordarsi tutte le Chiese, riconoscendo in essa la misura della vera tradizione apostolica, dell’unica fede comune della Chiesa. Con tali argomenti, qui molto brevemente riassunti, Ireneo confuta dalle fondamenta le pretese di questi gnostici, di questi intellettuali: anzitutto essi non posseggono una verità che sarebbe superiore a quella della fede comune, perché quanto essi dicono non è di origine apostolica, è inventato da loro; in secondo luogo, la verità e la salvezza non sono privilegio e monopolio di pochi, ma tutti le possono raggiungere attraverso la predicazione dei successori degli Apostoli, e soprattutto del Vescovo di Roma. In particolare - sempre polemizzando con il carattere “segreto” della tradizione gnostica e notandone gli esiti molteplici e fra loro contraddittori - Ireneo si preoccupa di illustrare il genuino concetto di Tradizione apostolica [...]

La Tradizione di cui egli parla, ben diversa dal tradizionalismo, è una Tradizione sempre internamente animata dallo Spirito Santo, che la rende viva e la fa essere rettamente compresa dalla Chiesa. Stando al suo insegnamento, la fede della Chiesa va trasmessa in modo che appaia quale deve essere, cioè “pubblica”, “unica”, “pneumatica” (cioè guidata dallo Spirito Santo - in greco “spirito” si dice pneuma), “spirituale”. A partire da ciascuna di queste caratteristiche si può condurre un fruttuoso discernimento circa l'autentica trasmissione della fede nell’oggi della Chiesa. Più in generale, nella dottrina di Ireneo la dignità dell’uomo, corpo e anima, è saldamente ancorata nella creazione divina, nell’immagine di Cristo e nell’opera permanente di santificazione dello Spirito. Tale dottrina è come una “via maestra” per chiarire insieme a tutte le persone di buona volontà l’oggetto e i confini del dialogo sui valori, e per dare slancio sempre nuovo all’azione missionaria della Chiesa, alla forza della verità, che è la fonte di tutti i veri valori del mondo.

Significato del nome Ireneo : “pace, pacifico” (greco)

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Maestro, ti seguirò dovunque andrai

Santa Chiara (1193-1252), monaca francescana
1a Lettera a sant'Agnese di Boemia, §15-23 (Fonti Francescani)

O beata povertà, che procura ricchezze eterne a chi l'ama e l'abbraccia ! O santa povertà : a chi la possiede e la desidera è promesso da Dio il regno dei cieli ed è senza dubbio concessa gloria eterna e vita beata ! O pia povertà, che il Signore Gesù Cristo, nel cui potere erano e sono il cielo e la terra, il quale « disse e tutto fu creato » (Sal 32, 9), si degnò più di ogni altro di abbracciare. Disse egli infatti : « Le volpi hanno le tane e gli uccelli del cielo i nidi, mentre il Figlio dell'uomo – cioè Cristo – non ha dove posare il capo », ma « chinato il capo [sulla croce] rese lo spirito » (Gc 19, 30).

Se dunque tanto grande e tale Signore quando venne nel grembo verginale volle apparire nel mondo disprezzato, bisognoso e povero, perché gli uomini, che erano poverissimi e bisognosi e soffrivano l'eccessiva mancanza di nutrimento celeste, fossero resi in lui ricchi col possesso del regno celeste, esultate grandemente e gioite ricolma di immenso gaudio e letizia spirituale ; poiché avendo voi preferito il disprezzo del mondo agli onori, la povertà alle ricchezze temporali e nascondere i tesori in cielo più che in terra, la « dove né la ruggine consuma, né il tarlo distrugge, né i ladri rovistano e rubano » (Mt 6, 20), « abbondantissima è la vostra ricompensa nei cieli » (Mt 5, 12).
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domenica 27 giugno 2010

Amare i nostri nemici

Non siamo buoni fratelli dei nostri fratelli, gli uomini, se non siamo disposti a mantenere una condotta retta, anche quando chi ci sta accanto interpreta male il nostro comportamento, e reagisce in modo spiacevole. (Forgia, 460).

Noi, figli di Dio, ci forgiamo nella pratica del comandamento nuovo, impariamo nella Chiesa a servire e a non farci servire [Cfr Mt 20, 28], e siamo in grado di amare l'umanità in modo nuovo, che tutti scopriranno essere frutto della grazia di Cristo.
Il nostro amore non va confuso con il sentimentalismo, neppure con il mero cameratismo, e nemmeno con il desiderio poco chiaro di aiutare gli altri per dimostrare a noi stessi la nostra superiorità.
È saper convivere col prossimo, venerare — insisto — l'immagine di Dio insita in ogni uomo, facendo in modo che anche lui la contempli, e così sappia dirigersi a Cristo.Universalità della carità significa, pertanto, universalità dell'apostolato; capacità nostra di trasformare in opere, e sul serio, il grandioso impegno di Dio, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità [1 Tm 2, 4].
Se si devono amare anche i nemici — intendo coloro che ci considerano loro nemici: per quanto mi riguarda, non mi sento nemico di niente e di nessuno — a maggior ragione bisognerà amare coloro che sono semplicemente lontani, coloro che ci sono meno simpatici, coloro che, per motivi di lingua, di cultura, di educazione, sembrano il mio o il tuo opposto.(Amici di Dio, 230)
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San Cirillo di Alessandria

Vescovo e Dottore della Chiesa
Dalla Catechesi di Papa Benedetto XVI (Mercoledì, 3 ottobre 2007)

Cari fratelli e sorelle,
anche oggi, continuando il nostro itinerario che sta seguendo le tracce dei Padri della Chiesa, incontriamo una grande figura: S. Cirillo di Alessandria. Legato alla controversia cristologica che portò al Concilio di Efeso del 431 e ultimo rappresentante di rilievo della tradizione alessandrina, nell’Oriente greco Cirillo fu più tardi definito “custode dell’esattezza” - da intendersi come custode della vera fede - e addirittura “sigillo dei Padri”. Queste antiche espressioni esprimono bene un dato di fatto che è caratteristico di Cirillo, e cioè il costante riferimento del Vescovo di Alessandria agli autori ecclesiastici precedenti (tra questi, soprattutto Atanasio) con lo scopo di mostrare la continuità della propria teologia con la Tradizione. Egli si inserisce volutamente, esplicitamente nella Tradizione della Chiesa, nella quale riconosce la garanzia della continuità con gli Apostoli e con Cristo stesso. Venerato come Santo sia in Oriente che in Occidente, nel 1882 san Cirillo fu proclamato Dottore della Chiesa dal Papa Leone XIII, il quale contemporaneamente attribuì lo stesso titolo anche ad un altro importante esponente della patristica greca, san Cirillo di Gerusalemme. Si rivelavano così l’attenzione e l’amore per le tradizioni cristiane orientali di quel Papa, che in seguito volle proclamare Dottore della Chiesa pure san Giovanni Damasceno, mostrando anche in questo modo la sua convinzione circa l’importanza di quelle tradizioni nell’espressione della dottrina dell’unica Chiesa di Cristo.

Le notizie sulla vita di Cirillo prima della sua elezione all’importante sede di Alessandria sono pochissime. Nipote di Teofilo, che dal 385 come Vescovo resse con mano ferma e grande prestigio la Diocesi alessandrina, Cirillo nacque probabilmente nella stessa metropoli egiziana tra il 370 e il 380. Venne presto avviato alla vita ecclesiastica e ricevette una buona educazione, sia culturale che teologica. Nel 403 era a Costantinopoli al seguito del suo potente zio, e qui partecipò al Sinodo detto della Quercia, che depose il Vescovo della città, Giovanni (detto più tardi Crisostomo), segnando così il trionfo della sede alessandrina su quella, tradizionalmente rivale, di Costantinopoli, dove risiedeva l’imperatore. Alla morte dello zio Teofilo, l’ancora giovane Cirillo nel 412 fu eletto Vescovo dell’influente Chiesa di Alessandria, che governò con grande energia per trentadue anni, mirando sempre ad affermarne il primato in tutto l’Oriente, forte anche dei tradizionali legami con Roma.

Qualche anno dopo, nel 417 o nel 418, il Vescovo di Alessandria si dimostrò realista nel ricomporre la rottura della comunione con Costantinopoli, che era in atto ormai dal 406 in conseguenza della deposizione del Crisostomo. Ma il vecchio contrasto con la sede costantinopolitana si riaccese una decina di anni più tardi, quando nel 428 vi fu eletto Nestorio, un autorevole e severo monaco di formazione antiochena. Il nuovo Vescovo di Costantinopoli, infatti, suscitò presto opposizioni perché nella sua predicazione preferiva per Maria il titolo di “Madre di Cristo” (Christotókos), in luogo di quello - già molto caro alla devozione popolare - di “Madre di Dio” (Theotókos). Motivo di questa scelta del Vescovo Nestorio era la sua adesione alla cristologia di tipo antiocheno che, per salvaguardare l’importanza dell’umanità di Cristo, finiva per affermarne la divisione dalla divinità. E così non era più vera l’unione tra Dio e l’uomo in Cristo e, naturalmente, non si poteva più parlare di “Madre di Dio”.
La reazione di Cirillo - allora massimo esponente della cristologia alessandrina, che intendeva invece sottolineare fortemente l’unità della persona di Cristo - fu quasi immediata, e si dispiegò con ogni mezzo già dal 429, rivolgendosi anche con alcune lettere allo stesso Nestorio. Nella seconda che Cirillo gli indirizzò, nel febbraio del 430, leggiamo una chiara affermazione del dovere dei Pastori di preservare la fede del Popolo di Dio. Questo era il suo criterio, valido peraltro anche oggi: la fede del Popolo di Dio è espressione della Tradizione, è garanzia della sana dottrina. Così scrive a Nestorio: « Bisogna esporre al popolo l’insegnamento e l’interpretazione della fede nel modo più irreprensibile e ricordare che chi scandalizza anche uno solo dei piccoli che credono in Cristo subirà un castigo intollerabile ».
Nella stessa lettera a Nestorio - lettera che più tardi, nel 451, sarebbe stata approvata dal Concilio di Calcedonia, il quarto ecumenico - Cirillo descrive con chiarezza la sua fede cristologica: « Affermiamo così che sono diverse le nature che si sono unite in vera unità, ma da ambedue è risultato un solo Cristo e Figlio, non perché a causa dell’unità sia stata eliminata la differenza delle nature, ma piuttosto perché divinità e umanità, riunite in unione indicibile e inenarrabile, hanno prodotto per noi il solo Signore e Cristo e Figlio ». E questo è importante: realmente la vera umanità e la vera divinità si uniscono in una sola Persona, il Nostro Signore Gesù Cristo. Perciò, continua il Vescovo di Alessandria, « professeremo un solo Cristo e Signore, non nel senso che adoriamo l’uomo insieme col Logos, per non insinuare l’idea della separazione col dire “insieme”, ma nel senso che adoriamo uno solo e lo stesso, perché non è estraneo al Logos il suo corpo, col quale siede anche accanto a suo Padre, non quasi che gli seggano accanto due figli, bensì uno solo unito con la propria carne ».
E presto il Vescovo di Alessandria, grazie ad accorte alleanze, ottenne che Nestorio fosse ripetutamente condannato: da parte della sede romana, quindi con una serie di dodici anatematismi da lui stesso composti e, infine, dal Concilio tenutosi a Efeso nel 431, il terzo ecumenico. L’assemblea, svoltasi con alterne e tumultuose vicende, si concluse con il primo grande trionfo della devozione a Maria e con l’esilio del Vescovo costantinopolitano che non voleva riconoscere alla Vergine il titolo di “Madre di Dio”, a causa di una cristologia sbagliata, che apportava divisione in Cristo stesso. Dopo avere così prevalso sul rivale e sulla sua dottrina, Cirillo seppe però giungere, già nel 433, a una formula teologica di riconciliazione con gli antiocheni. E anche questo è significativo: da una parte c’è la chiarezza della dottrina di fede, ma dall’altra anche la ricerca intensa dell’unità e della riconciliazione. Negli anni seguenti si dedicò in ogni modo a difendere e a chiarire la sua posizione teologica fino alla morte, sopraggiunta il 27 giugno del 444.

Gli scritti di Cirillo - davvero molto numerosi e diffusi con larghezza anche in diverse traduzioni latine e orientali già durante la sua vita, a testimonianza del loro immediato successo - sono di primaria importanza per la storia del cristianesimo. Importanti sono i suoi commenti a molti libri veterotestamentari e del Nuovo Testamento, tra cui l’intero Pentateuco, Isaia, i Salmi e i Vangeli di Luca e di Giovanni. [...]

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Santa Teresa Benedetta della Croce [Edith Stein] (1891-1942), carmelitana, martire, compatrona d'Europa
Meditazione per la festa dell'Esaltazione della croce

Il Salvatore ci ha preceduti sul cammino della povertà.
Tutti i beni del cielo e della terra gli appartenevano. Non rappresentavano per lui alcun pericolo; poteva farne uso pur tenendo il suo cuore perfettamente libero.
Sapeva però che per un essere umano è quasi impossibile possedere dei beni senza subordinarvi se stesso e diventarne schiavo.
Per questo ha lasciato tutto e ci ha mostrato, con il suo esempio più ancora che con le sue parole, che solo chi non possiede nulla possiede tutto.
La sua nascita in una stalla e la sua fuga in Egitto mostravano già che occorreva che il Figlio dell'uomo non avesse dove posare il capo.
Chi vuole seguirlo deve sapere che non abbiamo quaggiù dimora permanente.
Quanto più vivamente ce ne accorgeremo, tanto più ardentemente tenderemo verso la nostra dimora futura ed esulteremo al pensiero di avere libero accesso al cielo.
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sabato 26 giugno 2010

Un grande Amore ti aspetta in Cielo

(Oggi la Chiesa celebra la festa di san Josemaría Escrivá a cui si devono le riflessioni che sono raggruppate in "Angolo dello Spirito")

Ne sono sempre più persuaso: la felicità del Cielo è per coloro che sanno essere felici sulla terra. (Forgia, 1005)

Scrivevi: “Simile est regnum coelorum” — il Regno dei Cieli è simile a un tesoro... Questo passo del Santo Vangelo mi è caduto nell'anima, e ha messo radici. Lo avevo letto tante volte, senza coglierne il midollo, il sapore divino”.
Tutto..., tutto deve vendere l'uomo avveduto, pur di ottenere il tesoro, la perla preziosa della Gloria! (Forgia, 993)

Pensa quanto è gradito a Dio nostro Signore l'incenso che è bruciato in suo onore; pensa anche a quanto poco valgono le cose della terra, che appena cominciate sono già finite...Invece, un grande Amore ti aspetta in Cielo: senza tradimenti, senza inganni: tutto l'Amore, tutta la bellezza, tutta la grandezza, tutta la scienza...! E senza stancare: ti sazierà senza saziarti.(Forgia, 995)

Non c'è maggior dignità che sapersi a servizio: al servizio volontario di tutte le anime!— È così che si conquistano i grandi onori: quelli della terra e quelli del Cielo.(Forgia, 1045)
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San Josemaría Escrivá

Sacerdote, Fondatore : “Opus Dei”

Josemaría Escrivá nacque a Barbastro (provincia di Huesca, Spagna) il 9 gennaio 1902. I suoi genitori si chiamavano José e Dolores. Ebbe cinque fratelli: Carmen (1899-1957), Santiago (1919-1994) e altre tre sorelle più giovani di lui che morirono in giovane età. I coniugi Escrivá impartirono ai loro figli una profonda educazione cristiana.

Nel 1915, il padre, che era commerciante di tessuti, dovette trasferirsi a Logroño, dove trovò un altro lavoro. In questa città Josemaría percepì per la prima volta la sua vocazione: dopo aver visto sulla neve le orme dei piedi nudi di un religioso, intuì che Dio voleva qualcosa da lui, senza sapere esattamente che cosa. Pensò che avrebbe potuto scoprirlo più facilmente se si fosse fatto sacerdote e cominciò a prepararsi, prima a Logroño e successivamente nel seminario di Saragozza. Seguendo un consiglio di suo padre, intraprese anche gli studi civili di diritto, iscrivendosi come privatista all’università di Saragozza.

José Escrivá morì nel 1924 ed egli divenne capo famiglia.
Ricevette l'ordinazione sacerdotale il 28 marzo 1925, e cominciò a esercitare il ministero in una parrocchia rurale, quindi a Saragozza.
Nel 1927 si trasferì a Madrid, con il permesso del suo vescovo, per conseguire il dottorato in diritto. Lì, il 2 ottobre 1928, Iddio gli fece vedere la missione che da vari anni gli stava ispirando, e fondò la “Opus Dei”. Da quel momento si impegnò con tutte le sue forze per lo sviluppo di ciò che Dio gli aveva chiesto di fondare, e contemporaneamente continuava ad esercitare il ministero pastorale affidatogli che lo metteva ogni giorno a contatto con le malattie e la miseria negli ospedali e nei quartieri popolari di Madrid.

Josemaría si trovava a Madrid quando, nel 1936, scoppiò la guerra civile e la persecuzione religiosa lo costrinse a rifugiarsi in vari luoghi. Esercitava il ministero sacerdotale clandestinamente, finché riuscì a lasciare Madrid. Dopo aver attraversato i Pirenei, riparando nel sud della Francia, si stabilì a Burgos.
Terminata la guerra, nel 1939, fece ritorno a Madrid. Negli anni successivi predicò numerosi esercizi spirituali per laici, sacerdoti e religiosi. Nello stesso anno 1939 terminava gli studi per il dottorato in diritto.

Nel 1946 si stabilì a Roma dove ottenne il dottorato in teologia all'Università Lateranense. Fu nominato consultore di due Congregazioni vaticane, membro onorario della Pontificia Accademia di Teologia e prelato d'onore di Sua Santità. Seguì attentamente i preparativi e le sessioni del Concilio Vaticano II (1962-1965), intrattenendo fitti rapporti con diversi padri conciliari. Da Roma si recò più volte in vari paesi europei, per dare impulso all'avvio e al consolidamento dell'attività dell'Opus Dei. Per gli stessi motivi, fra il 1970 e il 1975 fece lunghi viaggi in Messico, nella penisola iberica, in Sud America e in Guatemala, tenendo riunioni di catechesi con gruppi numerosissimi di persone.

Morì a Roma il 26 giugno 1975. Il suo corpo riposa nella Chiesa Prelatizia di Santa Maria della Pace - Viale Bruno Buozzi, 75 - Roma.
Migliaia di persone, fra cui numerosi vescovi di vari paesi - complessivamente, un terzo dell’episcopato mondiale -, chiesero alla Santa Sede l’avvio della causa di canonizzazione.

Il
17 maggio 1992 il Servo di Dio Giovanni Paolo II (Karol Józef Wojtyła) beatificava Josemaría Escrivá in piazza San Pietro a Roma, alla presenza di 300.000 persone. “Con un’intuizione soprannaturale - disse il Papa nell’omelia - il beato Josemaría predicò instancabilmente la chiamata universale alla santità e all’apostolato”.
Dieci anni dopo, il
6 ottobre 2002, lo stesso Papa Giovanni Paolo II ha canonizzato il fondatore dell'Opus Dei in Piazza San Pietro davanti a pellegrini provenienti da oltre 80 paesi. Durante il discorso nell’udienza concessa il 7 ottobre 2002 in Piazza San Pietro ai pellegrini convenuti a Roma per la canonizzazione, il Santo Padre ha detto che “San Josemaría fu scelto dal Signore per annunciare la chiamata universale alla santità e per indicare che la vita di tutti i giorni, le attività comuni, sono cammino di santificazione. Si potrebbe dire che egli fu il santo dell'ordinario”.

Fra gli scritti pubblicati del beato Josemaría Escrivá si annoverano, oltre al saggio teologico-giuridico La Abadesa de las Huelgas, libri di spiritualità tradotti in molte lingue:
Ø Cammino (Ares, 55ª ed., Milano 2008),
Ø Il santo Rosario (Ares, 8ª ed., Milano 2004),
Ø È Gesù che passa (Ares, 8ª ed., Milano 2006),
Ø Amici di Dio (Ares, 9ª ed., Milano 2006),
Ø Via Crucis (Ares, 5ª ed., Milano 2003),
Ø La Chiesa nostra Madre (Ares, 2ª ed., Milano 1993),
Ø Solco (Ares, 19ª ed., Milano 2007),
Ø Forgia (Ares, 15ª ed., Milano 2009), fra i quali gli ultimi cinque pubblicati postumi.

Una raccolta di interviste concesse alla stampa internazionale ha dato luogo al volume “Colloqui con monsignor Escrivá” (Ares, 7ª ed., Milano 2009). Tra le raccolte di scritti: Amare il mondo (scritti scelti a cura di Luciano Santarelli, Città Nuova, Roma 1990; Il lavoro rende santi (antologia a cura di Saverio Gaeta, San Paolo, Cinisello Balsamo1997); Tra le braccia del Padre (antologia a cura di Andrea Mardegan, Ed. I Rombi Marietti, Genova, 2000).

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Guarì molti malati

San Giovanni Crisostomo (circa 345-407), vescovo d'Antiochia poi di Costantinopoli, dottore della Chiesa
Omelie sul vangelo di Matteo, 27,1

« Venuta la sera, gli portarono molti indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la sua parola e guarì tutti i malati ».
Vedi come la fede della folla si accresce a poco a poco ? Nonostante l'ora avanzata, non hanno voluto lasciare il Signore, hanno pensato che la sera permetteva loro di portargli dei malati. Pensi a tutte le guarigioni che gli evangelisti tralasciano ; non le raccontano tutte una a una, ma in una sola frase, ci fanno vedere un oceano infinito di miracoli.

E affinché la grandezza del prodigio non ci porti all'incredulità, affinché non siamo sconcertati al pensiero che tale folla colpita da mali così diversi sia guarita in un istante, il vangelo porta la testimonianza del profeta, tanto straordinaria e sorprendente quanto i fatti stessi : « Perché si adempisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia : Egli ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie » (Is 53,4).

Non dice : « Egli ha distutto », ma : « Egli ha preso » e « si è addossato », dimostrando così, secondo me, che il profeta parla più del peccato che delle malattie del corpo, ciò che è conforme alla parola di Giovanni : « Ecco l'Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo » (Gv 1,29).
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venerdì 25 giugno 2010

Messaggio Medjugorje 25/06/2010

Cari figli, con gioia vi invito tutti a vivere i miei messaggi con gioia, soltanto così figlioli, potrete essere più vicini al mio Figlio.
Io desidero guidarvi tutti soltanto a Lui e in Lui troverete la vera pace e la vera gioia del vostro cuore.
Vi benedico tutti e vi amo con amore immenso.
Grazie per aver risposto alla mia chiamata.
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La messe è molta e pochi gli operai

La messe è molta e pochi gli operai. —“Rogate ergo!” —Pregate, dunque, il Signore della messe perché mandi operai nel suo campo. La preghiera è il mezzo più efficace di proselitismo. (Cammino, 800)

Ancora risuona nel mondo quel grido divino: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e che altro voglio, se non che divampi?”. —Eppure, vedi: è quasi tutto spento...Non ti viene voglia di propagare l'incendio? (Cammino, 801)

Vorresti attrarre al tuo apostolato quell'uomo di scienza, quel personaggio autorevole e quel tale pieno di prudenza e di virtù.Prega, offri sacrifici e lavòrateli con il tuo esempio e con la tua parola. —Non vengono! — Non perdere la pace: vuol dire che non sono necessari.
Credi che non ci fossero dei contemporanei di Pietro, dotti, e autorevoli, e prudenti, e virtuosi, al di fuori del gruppo dei primi dodici? (Cammino, 802)

Strazia il cuore il grido — sempre attuale! — del Figlio di Dio, che si lamenta perché la messe è molta e gli operai sono pochi.— Questo grido è uscito dalla bocca di Cristo, perché anche tu possa ascoltarlo: come gli hai risposto fino a ora? preghi, almeno ogni giorno, per questa intenzione? (Forgia, 906)

Per seguire il Signore è necessario darsi una volta per tutte, senza riserve e virilmente: bruciare le navi senza esitare, perché non vi siano possibilità di tornare indietro.(Forgia, 907)
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San Massimo di Torino / 2

Testo completo della catechesi di Benedetto XVI

Preghiera:

O Dio, che in San Massimo, vescovo e servitore del tuo popolo,hai dato alla Chiesa un’immagine viva del Cristo, buon pastore,per la sua preghiera concedi a noi di giungere ai pascoli della vita eterna.

Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,e vive e regna con Te, nell’unità dello Spirito Santo,per tutti i secoli dei secoli.

Amen.

Nella diocesi di Torino:

Proteggi, o Signore, questa Chiesa che san Massimo ha fondato con la parola di verità e i sacramenti della vita.Con la sua predicazione ci hai dato di conoscere il Cristo salvatore:per la sua intercessione fa che viviamo con coerenza la nostra vocazione di cristiani.

Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,e vive e regna con Te, nell’unità dello Spirito Santo,per tutti i secoli dei secoli.

Amen.
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San Massimo di Torino

1° Vescovo
Dalla Catechesi di Papa Benedetto XVI (Mercoledì, 31 ottobre 2007)


Cari fratelli e sorelle,
tra la fine del quarto secolo e l’inizio del quinto, un altro Padre della Chiesa, dopo sant’Ambrogio, contribuì decisamente alla diffusione e al consolidamento del cristianesimo nell’Italia settentrionale: è S. Massimo, che incontriamo Vescovo a Torino nel 398, un anno dopo la morte di Ambrogio. Ben poche sono le notizie su di lui; in compenso è giunta fino a noi una sua raccolta di circa novanta Sermoni. Da essi emerge quel legame profondo e vitale del Vescovo con la sua città, che attesta un punto di contatto evidente tra il ministero episcopale di Ambrogio e quello di Massimo.

In quel tempo gravi tensioni turbavano l’ordinata convivenza civile. Massimo, in questo contesto, riuscì a coagulare il popolo cristiano attorno alla sua persona di Pastore e di maestro. La città era minacciata da gruppi sparsi di barbari che, entrati dai valichi orientali, si spingevano fino alle Alpi occidentali. Per questo Torino era stabilmente presidiata da guarnigioni militari e diventava, nei momenti critici, il rifugio delle popolazioni in fuga dalle campagne e dai centri urbani sguarniti di protezione. Gli interventi di Massimo, di fronte a questa situazione, testimoniano l’impegno di reagire al degrado civile e alla disgregazione. [...]

Per illustrare in tale prospettiva il ministero di Massimo nella sua città, vorrei addurre ad esempio i Sermoni 17 e 18, dedicati a un tema sempre attuale, quello della ricchezza e della povertà nelle comunità cristiane. Anche in questo ambito la città era percorsa da gravi tensioni. Le ricchezze venivano accumulate e occultate. « Uno non pensa al bisogno dell’altro », constata amaramente il Vescovo nel suo diciassettesimo Sermone. « Infatti molti cristiani non solo non distribuiscono le cose proprie, ma rapinano anche quelle degli altri. Non solo, dico, raccogliendo i loro danari non li portano ai piedi degli Apostoli, ma anche trascinano via dai piedi dei sacerdoti i loro fratelli che cercano aiuto ». E conclude: « Nella nostra città ci sono molti ospiti o pellegrini. Fate ciò che avete promesso » aderendo alla fede, « perché non si dica anche a voi ciò che fu detto ad Anania: “Non avete mentito agli uomini, ma a Dio”» (Sermone 17,2-3).

Nel Sermone successivo, il diciottesimo, Massimo stigmatizza forme ricorrenti di sciacallaggio sulle altrui disgrazie. « Dimmi, cristiano », così il Vescovo apostrofa i suoi fedeli, « dimmi: perché hai preso la preda abbandonata dai predoni? Perché hai introdotto nella tua casa un “guadagno”, come pensi tu stesso, sbranato e contaminato? ». «Ma forse», prosegue, « tu dici di aver comperato, e per questo pensi di evitare l’accusa di avarizia. Ma non è in questo modo che si può far corrispondere la compera alla vendita. È una buona cosa comperare, ma in tempo di pace ciò che si vende liberamente, non durante un saccheggio ciò che è stato rapinato ... Agisce dunque da cristiano e da cittadino chi compera per restituire » (Sermone 18,3). Senza darlo troppo a vedere, Massimo giunge così a predicare una relazione profonda tra i doveri del cristiano e quelli del cittadino. Ai suoi occhi, vivere la vita cristiana significa anche assumere gli impegni civili. Viceversa, ogni cristiano che, « pur potendo vivere col suo lavoro, cattura la preda altrui col furore delle fiere »; che « insidia il suo vicino, che ogni giorno tenta di rosicchiare i confini altrui, di impadronirsi dei prodotti », non gli appare neanche più simile alla volpe che sgozza le galline, ma al lupo che si avventa sui porci (Sermone 41,4). [...]

In conclusione, vorrei ricordare ciò che dice la Costituzione pastorale
Gaudium et spes per illuminare uno dei più importanti aspetti dell’unità di vita del cristiano: la coerenza tra fede e comportamento, tra Vangelo e cultura. Il Concilio esorta i fedeli a « compiere fedelmente i propri doveri terreni, facendosi guidare dallo spirito del Vangelo. Sbagliano coloro che, sapendo che qui noi non abbiamo una cittadinanza stabile, ma che cerchiamo quella futura, pensano di potere per questo trascurare i propri doveri terreni e non riflettono che invece proprio la fede li obbliga ancora di più a compierli, secondo la vocazione di ciascuno » (n. 43).

Seguendo il magistero di S. Massimo e di molti altri Padri, facciamo nostro l’auspicio del Concilio, che sempre di più i fedeli siano desiderosi di « esplicare tutte le loro attività terrene, unificando gli sforzi umani, domestici, professionali, scientifici e tecnici in una sola sintesi vitale insieme con i beni religiosi, sotto la cui altissima direzione tutto viene coordinato a gloria di Dio » (ibid.) e così al bene dell’umanità.

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Gesù lo toccò dicendo : ‘ Lo voglio, sii sanato

Simeone il Nuovo Teologo (circa 949-1022), monaco ortodosso
Inno 30 ; SC 174, 357

Prima che brillasse la luce divina, io non conescevo me stesso.
Allora, al vedere me nelle tenebre e in carcere, rinchiuso in un pantano, coperto di imondizie, ferito, la carne gonfia..., sono caduto ai piedi di colui che mi aveva illuminato.

E colui che mi aveva illuminato tocca con le sue mani i miei legami e le mie ferite;

là dove la sua mano tocca e il suo dito si avvicina, subito cadono i miei legami, scompaiono le ferite, e ogni sporcizia.

L’impurità della mia carne scompaia... sicché egli la rende simile alla sua mano divina.

Strana meraviglia: la mia carne, la mia anima e il mio corpo partecipano della gloria divina.

Appena sono stato purificato e liberato dai miei legami,ecco che stende verso di me la sua mano divina, mi tira fuori del pantano interamente, mi abbraccia, mi si getta al collo, mi bacia (Lc 15,20).

Mi prende sulle spalle io che ero completamente esausto, e avevo perso le mie forze, e mi porta fuori dall’inferno...

La luce stessa mi porta e mi sostiene; mi trascina verso una grande luce...Egli mi dona di contemplare con quale strano rimodellare lui stesso mi ha plasmato nuovamente (Gen 2,7) e mi ha strappato dalla corruzione.

Mi ha fatto il dono di una vita immortale e mi ha rivestito di una tunica immateriale e luminosa e mi ha dato dei sandali, un anello e una corona incorruttibili e eterni (Lc 15,22).
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giovedì 24 giugno 2010

Sei figlio di Dio

Il battesimo ci rende “fideles” — fedeli, parola che, come l'altra, “sancti” — santi, i primi seguaci di Gesù usavano per indicarsi tra di loro, e che ancor oggi è in uso: si parla dei “fedeli” della Chiesa. — Pensaci! (Forgia, 622)

In quel tempo Gesù dalla Galilea andò al Giordano da Giovanni per farsi battezzare da lui [...]. Ed ecco una voce dal cielo che disse: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto» (Mt 3, 13.17).
Con il Battesimo, Dio nostro Padre ha preso possesso della nostra vita, ci ha incorporati alla vita di Cristo e ci ha mandato lo Spirito Santo.La forza e il potere di Dio illuminano la faccia della terra.Faremo ardere il mondo, nelle fiamme del fuoco che sei venuto a portare sulla terra!...
E la luce della tua verità, Gesù nostro, illuminerà le intelligenze, in un giorno senza fine.Io ti sento esclamare, mio Re, con voce viva, tuttora vibrante. «Ignem veni mittere in terram, et quid volo nisi un accendatur?» (Lc 12, 49). – E rispondo – con tutto me stesso – con in miei sensi e le mie facoltà: «Ecce ego: quia vocasti me!» (1 Sam 3, 9).Il Signore ha posto nella tua anima un sigillo indelebile, per mezzo del Battesimo: sei figlio di Dio.Bambino: non ardi dal desiderio di far sì che tutti lo amino?(Santo Rosario, Iº mistero luminoso)
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Natività di San Giovanni Battista

Giovanni Battista è l'unico santo, insieme a Maria, la Madre di Dio, di cui festeggiamo la nascita e non solo la morte. È un gesto di considerazione verso colui che Gesù stesso definirà il più grande fra i nati di donna.

Giovanni Battista non ha compiuto nessun miracolo nel corso della sua vita terrena, come d'altra parte Maria santissima, ma tutto nella sua storia personale ha dello straordinario.
Già la sua nascita esce dalla normalità delle vicende umane. Suo padre resta muto per tutto il tempo della gravidanza della moglie già avanti con l'età e recupera la parola solo otto giorni dopo il parto di Elisabetta.

Zaccaria, come tutti i discendenti di Levi, una delle dodici tribù di Israele, apparteneva all'ordine sacerdotale. Di solito se ne stava a curare le sue proprietà nel Sud, ma due volte l'anno, una delle quali a fine settembre, si recava a Gerusalemme, dove con i suoi compagni della classe di Abìa, prestava il suo servizio nel tempio.
Fra le altre incombenze c'era quella di presentare l'offerta dell'incenso nel pomeriggio. Non era un compito gravoso e andava estratto a sorte; quel giorno toccò a lui. Dall'altare dove si bruciavano gli animali offerti in sacrificio egli doveva salire i dodici gradini che introducevano nella sala detta il "Santo" separato dall'esterno da un velo: lì si trovava l'altare dei profumi in legno di acacia rivestito di ori. Ma quel giorno, dopo avere compiuto il suo rito, il sacerdote Zaccaria non esce subito dal "Santo" e, quando finalmente si fa vedere al popolo in attesa nell'atrio, tutti capiscono che nel tempo in cui egli se ne stava ritirato doveva essere successo qualcosa di strano, perché l'ormai anziano Zaccaria non poteva più parlare ed era costretto ad esprimersi a gesti.
Un angelo gli era apparso e gli aveva dato un annuncio. La sua preghiera insistente di avere un figlio era stata esaudita ed egli avrebbe dovuto chiamare Giovanni il bambino che sarebbe nato. Da parte sua Giovanni sarebbe stato grande davanti al Signore, temperante in tutto e pieno di Spirito santo. Il suo compito sarebbe stato quello di preparare al Messia un popolo ben disposto.

La Chiesa con la celebrazione della natività di Giovanni il Battista vuole indicare lo stretto nesso che intercorre fra il Salvatore e il suo Precursore. Nel primo incontro con Gesù ancora nel grembo della madre sua, Giovanni, anch'egli ancora nel grembo di Elisabetta, esulta di gioia. A lui è affidato il compito di preparare gli animi all'incontro con il Salvatore, preparare la sposa da presentare allo sposo, disporre l'animo dei discepoli a seguire il Maestro che deve crescere mentre egli deve diminuire. La sua testimonianza è decisa e irrevocabile : “Io non sono il Cristo...Io battezzo con acqua, ma in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, uno che viene dopo di me, al quale io non son degno di sciogliere il legaccio del sandalo”. (Gv 1,20, 26-27). Verrà il momento in cui lui stesso lo indicherà ai suoi discepoli: “Ecco l'Agnello di Dio...”. (Gv 1,29)

Il brano del vangelo di Luca ci fa assistere con senso di stupore a questa nascita miracolosa, al commento meravigliato della gente della Giudea montagnosa, e alla sorpresa quando si tratta di dare il nome al fanciullo, nel momento della circoncisione, ottavo giorno dalla nascita. Elisabetta dice apertamente:“Giovanni è il suo nome”. Si pensa che si tratti di demenza...Vogliono sentire il parere del padre Zaccaria, ancora nella sua mutevolezza. Egli scrive su una tavoletta: Il suo nome è Giovanni - dono di Dio. Allora si verifica qualche cosa di straordinario. Zaccaria riprende la parola e canta il suo canto di lode, lui che era muto ora
canta: “Benedetto il Signore, Dio di Israele...” (cfr Lc 1, 68-79 o & è
Preghiere del mattino e della sera).
Giustamente, la gente dinanzi a queste manifestazioni della potenza dell'Altissimo, si chiede: “Che sarà mai questo bambino?” Oggi, possiamo rispondere: Sarà la voce che invita a penitenza, sarà il martire che paga con la sua vita la fedeltà alla missione affidatagli.
La sua nascita, che precede di poco quella del Salvatore, è salutata con sentimenti di gioia da tutta la Chiesa. La sua grandezza è proclamata dal Signore. “Io vi dico: Tra i nati di donna non ce n'è uno più grande di Giovanni!” (Lc 7,28)

Ogni illuminato dalla grazia del battesimo dovrebbe sentire come propria la missione di preparare la via del Signore nella sua anima e in quella di quanti incontrerà nella vita. Giovanni ci indica la via: Fedeltà ai doni di Dio e profonda umiltà.

Significato del nome Giovanni : "il Signore è benefico, dono del Signore" (ebraico).

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Il Signore dal seno materno mi ha chiamato

Origene (circa 185-253), sacerdote e teologo
Discorsi sul Vangelo di Luca, 4, 4-6 ; SC 87, 133

La nascita di Giovanni il Battista è piena di miracoli. Un arcangelo aveva annunciato la nascita del nostro Signore e Salvatore Gesù ; così, un arcangelo annuncia la nascita di Giovanni (Lc 1,13) e dice : « Sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua mandre ». Il popolo giudeo non vedeva che il nostro Signore compiva « miracoli e prodigi » e guariva le loro malattie, invece Giovanni esulta di gioia mentre è ancora nel seno materno. Non si può trattenerlo e, appena arrivata la madre di Gesù, il bambino cerca di uscire dal seno di Elisabetta. « Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo » (Lc 1,44). Ancora nel seno di sua madre, Giovanni aveva già ricevuto lo Spirito Santo...

La Scrittura dice poi che « ricondurrà molti figli d'Israele al Signore loro Dio » (Lc 1,16). Giovanni ne ha ricondotto « molti » ; il Signore, non molti, bensì tutti. Questa infatti è la sua opera : ricondurre tutti gli uomini a Dio Padre...

Per parte mia, ritengo che il mistero di Giovanni si compie nel mondo fino a oggi. Chiunque è destinato a credere in Cristo Gesù, bisogna che prima lo spirito e la forza di Giovanni vengano nel suo animo per « preparare al Signore un popolo ben disposto » (Lc 1,17) e, nelle asperità del cuore, « spianare i luoghi impervi e raddrizzare i passi tortuosi » (Lc 3,5). Non soltanto in quel tempo le vie furono spianate e i sentieri raddrizzati, ma ancora oggi lo spirito e la forza di Giovanni precedono la venuta del Signore Salvatore. O grandezza del mistero del Signore e del suo disegno sul mondo !
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mercoledì 23 giugno 2010

Gesù, nel tuo nome, cercherò anime

“Duc in altum”. —Prendi il largo! —
Respingi il pessimismo che ti rende codardo.
“Et laxate retia vestra in capturam” —e getta le tue reti per la pesca.
Non vedi che puoi dire, come Pietro:
“In nomine tuo, laxabo rete” —Gesù, nel tuo nome, cercherò anime? (Cammino, 792)

Dobbiamo accompagnare Cristo nella sua pesca divina. Gesù si trova presso il lago di Genezaret e la gente si accalca intorno a Lui per ascoltare la parola di Dio [Lc 5, 2]. Anche oggi!
Non lo vedete? Desiderano ascoltare il messaggio di Dio, anche se all'esterno lo nascondono. Alcuni forse hanno dimenticato la dottrina di Cristo; altri — senza loro colpa — non l'hanno mai appresa e pensano alla religione come a qualcosa di strano.
Convincetevi, però, di una realtà sempre attuale: presto o tardi arriva un momento in cui l'anima non ne può più, non le bastano più le spiegazioni abituali, non la soddisfano più le menzogne dei falsi profeti.
Allora, anche se non lo ammettono, quelle persone sentono il bisogno di saziare la loro inquietudine con l'insegnamento del Signore.(Amici di Dio, nn. 260)
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San Giuseppe Cafasso

Sacerdote

Giuseppe Cafasso nasce a Castelnuovo d’Asti il 15 gennaio 1811 (4 anni prima del compaesano Giovanni Bosco).
Figlio di piccoli proprietari terrieri, è il terzo di quattro figli, di cui l’ultima, Marianna, sarà la madre del beato don Giuseppe Allamano. Fin da giovanissimo era stimato dalla famiglia e dall’intero paese come un piccolo santo.
Frequentò le scuole pubbliche del suo paese prima di entrare in seminario; era difficile prevedere un futuro di oratore: a scuola andava abbastanza male, ed inoltre il suo parlare era sommesso.

Compie gli studi teologici presso il seminario di Chieri e nel 1833 viene ordinato presbitero. Quattro mesi dopo si stabilisce al Convitto Ecclesiastico del teologo Luigi Guala per perfezionare la sua formazione sacerdotale e pastorale. Vi resterà tutta la vita: prima come insegnante, poi come direttore spirituale ed infine come rettore.
Al Convitto si respirano la spiritualità di S. Ignazio e gli orientamenti teologici e pastorali di S. Alfonso Maria de’ Liguori. L’insegnamento viene curato con grande attenzione e si mira a formare buoni confessori e abili predicatori. Nonostante la mancanza di una voce tonante venne chiamato a predicare. Il suo aspetto era gracile, la sua colonna vertebrale deviata lo faceva apparire gobbo. Alcuni notabili gli proposero anche di candidarsi alla Camera ma don Cafasso rinunciò rispondendo : “Nel dì del Giudizio il Signore mi chiederà se avrò fatto il buon prete, non il deputato”.

Giuseppe studia e approfondisce la spiritualità di S. Francesco di Sales, che poi trasmetterà soprattutto ad uno studente: Giovanni Bosco. Il Cafasso, suo direttore spirituale dal 1841 al 1860, ha contribuito a formare e indirizzare la personalità e la spiritualità di don Bosco.
Tipica del suo insegnamento è la valorizzazione del dovere quotidiano in ordine alla santità. Come ebbe a testimoniare lo stesso fondatore dei salesiani: “La virtù straordinaria del Cafasso fu quella di praticare costantemente e con fedeltà meravigliosa le virtù ordinarie”.

Sempre attento alle necessità degli ultimi, visitava e sosteneva, anche economicamente, i più poveri, portando loro la consolazione derivante dal suo ministero sacerdotale. Il suo apostolato consisteva anche nell’accompagnamento spirituale dei carcerati e dei condannati a morte, tanto da essere definito il "prete dei carcerati".
Prudente e riservato, maestro di spirito, fu direttore spirituale di preti, laici, politici, fondatori; diceva sempre : “Non basterà un'eternità per ringraziare Dio di averci chiamati al suo servizio!” Don Cafasso sostenne anche materialmente don Bosco e la Congregazione salesiana fin dalle sue origini.
Dopo una breve malattia morì all’età di appena 49 anni il 23 giugno del 1860.

Giuseppe Cafasso fu beatificato nel 1925 da Pp Pio XI (Achille Ratti) che lo definì la “perla del clero italiano” e canonizzato nel 1947 da Pp Pio XII ( Eugenio Pacelli) che lo proclamò patrono dei carcerati e dei condannati alla pena capitale, perché in vita aveva fatto delle carceri il luogo preferito per l'esercizio dell'apostolato sacerdotale.

Papa Pio XII lo riconobbe un “modello di vita sacerdotale, padre dei poveri, consolatore degli infermi, sollievo dei carcerati, salute dei condannati al patibolo”.
Lo stesso Papa, nell’enciclica “
Menti Nostrae” del 23 settembre 1950, lo propose come modello di sacerdote :
« Si modellino su San Giuseppe Cafasso. Noi che, non sono ancor molti anni, con intima soddisfazione dell'animo Nostro abbiamo decretato gli onori degli altari al Sacerdote torinese Giuseppe Cafasso - il quale in tempi difficilissimi fu guida spirituale, sapiente e santa, di non pochi Sacerdoti, che fece progredire nella virtù, e di cui rese particolarmente fecondo il sacro ministero - nutriamo piena fiducia che anche per il suo valido patrocinio, il Divin Redentore susciti numerosi Sacerdoti di pari santità, i quali sappiano condurre se stessi ed i propri Confratelli a così eccelsa perfezione di vita che i fedeli, ammirando i loro esempi, si sentano spontaneamente mossi ad imitarli. » (fine seconda parte dell'enciclica).

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Dai nostri frutti ci riconosceranno

Sant'Ignazio d'Antiochia (? - circa 110), vescovo e martire
Lettera agli Efesini, 13-15
Impegnatevi a riunirvi più di frequente nell'azione di grazie e di gloria verso Dio. Quando vi riunite spesso, le forze di Satana vengono abbattute e il suo flagello si dissolve nella concordia della fede. Niente è più bello della pace nella quale si frustra ogni guerra di potenze celesti e terrestri.

Nulla di tutto questo vi sfuggirà, se avete perfettamente la fede e la carità in Gesù Cristo, che sono il principio e lo scopo della vita. Il principio è la fede, il fine la carità. L'una e l'altra insieme riunite sono Dio, e tutto il resto segue la grande bontà. Nessuno che professi la fede pecca, nessuno che abbia la carità odia. «L'albero si conosce dal suo frutto». Così coloro che si professano di appartenere a Cristo saranno riconosciuti da quello che operano. Ora l'opera non è di professione di fede, ma che ognuno si trovi nella forza della fede sino all'ultimo.

È meglio tacere ed essere, che dire e non essere. È bello insegnare se chi parla opera. Uno solo è il maestro e «ha detto e ha fatto» (Sal 32,9) e ciò che tacendo ha fatto è degno del Padre. Chi possiede veramente la parola di Gesù può avvertire anche il suo silenzio per essere perfetto, per compiere le cose di cui parla o di essere conosciuto per le cose che tace. Nulla sfugge al Signore, anche i nostri segreti gli sono vicino. Tutto facciamo considerando che abita in noi templi suoi ed egli il Dio che è in noi, come è e apparirà al nostro volto amandolo giustamente.
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martedì 22 giugno 2010

Se noi cristiani sapessimo servire!

Quando ti parlo del “buon esempio”, intendo anche indicarti che devi comprendere e scusare, che devi riempire il mondo di pace e di amore. (Forgia, 560)

Se noi cristiani sapessimo servire!
Andiamo dal Signore e confidiamogli la nostra decisione di voler imparare a servire, perché soltanto così potremo non solo conoscere e amare Cristo, ma farlo conoscere e farlo amare dagli altri.Come lo faremo conoscere alle anime? Con l'esempio, come suoi testimoni, offrendoci a Lui in volontaria servitù in tutte le nostre opere, perché Egli è il Signore di tutta la nostra vita, perché è l'unica e definitiva ragione della nostra esistenza. Poi, dopo aver offerto la testimonianza dell'esempio, saremo idonei a istruire con la parola, con la dottrina. Gesù fece così: Coepit facere et docere, prima insegnò con le opere, poi con la sua predicazione divina.
Per servire gli altri nel nome di Cristo, è necessario essere molto umani. Se la nostra vita fosse disumana, Dio non vi edificherebbe nulla, perché di solito non costruisce sul disordine, sull'egoismo, sulla prepotenza. È necessario comprendere tutti, convivere con tutti, scusare tutti, perdonare tutti. Non si tratta di dire che è giusto ciò che non lo è, o che l'offesa a Dio non è offesa a Dio, o che il male è bene.
Però, non risponderemo al male con il male, ma con dottrina chiara e buone opere, affogando il male nell'abbondanza di bene. Cristo allora regnerà nella nostra anima e in quelle di coloro che ci sono vicini.
C'è chi cerca di costruire la pace nel mondo senza mettere nel suo cuore l'amore di Dio, senza servire le creature per amore di Dio. Come è possibile realizzare una simile missione di pace? La pace di Cristo è quella del suo regno; e il regno di nostro Signore si fonda sul desiderio di santità, sull'umile disponibilità a ricevere la grazia, su una vigorosa opera di giustizia, su una divina effusione d'amore.(E' Gesù che passa, 182)
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San Paolino di Nola

Vescovo

Paolino di Nola, al secolo Ponzio Anicio Meropio Paolino, nasce a Bordeaux (F) nel 355.
Date importanti della sua vita :
nel 378 è governatore della Campania;
nel 389 è battezzato;
nel 392 la moglie, che è cristiana, gli da un figlio, che muore pochi giorni dopo;
nel 394 é ordinato sacerdote;
nel 409 è consacrato vescovo di Nola dove muore il 22 giugno 431.

Dalla Catechesi di Benedetto XVI (Mercoledì, 12 dicembre 2007)

Cari fratelli e sorelle,
il Padre della Chiesa a cui oggi volgiamo l’attenzione è S. Paolino di Nola. Contemporaneo di S. Agostino, al quale fu legato da viva amicizia, Paolino esercitò il suo ministero in Campania, a Nola, dove fu monaco, poi presbitero e Vescovo. Era però originario dell’Aquitania, nel sud della Francia, e precisamente di Bordeaux, dove era nato da famiglia altolocata. Qui ricevette una fine educazione letteraria, avendo come maestro il poeta Ausonio. Dalla sua terra si allontanò una prima volta per seguire la sua precoce carriera politica, che lo vide assurgere, ancora in giovane età, al ruolo di governatore della Campania. In questa carica pubblica fece ammirare le sue doti di saggezza e di mitezza. Fu in questo periodo che la grazia fece germogliare nel suo cuore il seme della conversione. Lo stimolo venne dalla fede semplice e intensa con cui il popolo onorava la tomba di un Santo, il martire Felice, nel Santuario dell’attuale Cimitile. Come responsabile della cosa pubblica, Paolino si interessò a questo Santuario e fece costruire un ospizio per i poveri e una strada per rendere più agevole l’accesso ai tanti pellegrini.
Mentre si adoperava per costruire la città terrena, egli andava scoprendo la strada verso la città celeste. L’incontro con Cristo fu il punto d’arrivo di un cammino laborioso, seminato di prove. Circostanze dolorose, a partire dal venir meno del favore dell’autorità politica, gli fecero toccare con mano la caducità delle cose. Una volta arrivato alla fede scriverà: «L’uomo senza Cristo è polvere ed ombra» (Carme X,289). Desideroso di gettar luce sul senso dell’esistenza, si recò a Milano per porsi alla scuola di Ambrogio. Completò poi la formazione cristiana nella sua terra natale, ove ricevette il Battesimo per le mani del Vescovo Delfino, di Bordeaux. Nel suo percorso di fede si colloca anche il matrimonio. Sposò infatti Terasia, una pia nobildonna di Barcellona, dalla quale ebbe un figlio. Avrebbe continuato a vivere da buon laico cristiano, se la morte del bimbo nato da pochi giorni non fosse intervenuta a scuoterlo, mostrandogli che altro era il disegno di Dio sulla sua vita. Si sentì in effetti chiamato a votarsi a Cristo in una rigorosa vita ascetica.
In pieno accordo con la moglie Terasia, vendette i suoi beni a vantaggio dei poveri e, insieme con lei, lasciò l’Aquitania per Nola, dove i due coniugi presero dimora accanto alla Basilica del protettore s. Felice, vivendo ormai in casta fraternità, secondo una forma di vita alla quale anche altri si aggregarono. Il ritmo comunitario era tipicamente monastico, ma Paolino, che a Barcellona era stato ordinato presbitero, prese ad impegnarsi pure nel ministero sacerdotale a favore dei pellegrini. Ciò gli conciliò la simpatia e la fiducia della comunità cristiana che, alla morte del Vescovo, verso il 409, volle sceglierlo come successore sulla cattedra di Nola. La sua azione pastorale si intensificò, caratterizzandosi per un’attenzione particolare verso i poveri. Lasciò l’immagine di un autentico Pastore della carità, come lo descrisse san Gregorio Magno nel capitolo III dei suoi Dialoghi, dove Paolino è scolpito nel gesto eroico di offrirsi prigioniero al posto del figlio di una vedova. [...]
A chi rimaneva ammirato della decisione da lui presa di abbandonare i beni materiali, egli ricordava che tale gesto era ben lontano dal rappresentare già la piena conversione: « L’abbandono o la vendita dei beni temporali posseduti in questo mondo non costituisce il compimento, ma soltanto l’inizio della corsa nello stadio; non è, per così dire, il traguardo, ma solo la partenza. L’atleta infatti non vince allorché si spoglia, perché egli depone le sue vesti proprio per incominciare a lottare, mentre è degno di essere coronato vincitore solo dopo che avrà combattuto a dovere » (cfr Ep. XXIV,7 a Sulpicio Severo).

Accanto all’ascesi e alla Parola di Dio, la carità: nella comunità monastica i poveri erano di casa. Ad essi Paolino non si limitava a fare l’elemosina: li accoglieva come se fossero Cristo stesso. Aveva riservato per loro un reparto del monastero e, così facendo, gli sembrava non tanto di dare, ma di ricevere, nello scambio di doni tra l’accoglienza offerta e la gratitudine orante degli assistiti. Chiamava i poveri suoi «patroni» (cfr Ep. XIII,11 a Pammachio) e, osservando che erano alloggiati al piano inferiore, amava dire che la loro preghiera faceva da fondamento alla sua casa (cfr Carme XXI,393-394).
San Paolino non scrisse trattati di teologia, ma i suoi carmi e il denso epistolario sono ricchi di una teologia vissuta, intrisa di Parola di Dio, costantemente scrutata come luce per la vita. In particolare, emerge il senso della Chiesa come mistero di unità. La comunione era da lui vissuta soprattutto attraverso una spiccata pratica dell’amicizia spirituale. In questa Paolino fu un vero maestro, facendo della sua vita un crocevia di spiriti eletti: da Martino di Tours a Girolamo, da Ambrogio ad Agostino, da Delfino di Bordeaux a Niceta di Remesiana, da Vittricio di Rouen a Rufino di Aquileia, da Pammachio a Sulpicio Severo, e a tanti altri ancora, più o meno noti. Nascono in questo clima le intense pagine scritte ad Agostino. Al di là dei contenuti delle singole lettere, impressiona il calore con cui il Santo nolano canta l’amicizia stessa, quale manifestazione dell’unico corpo di Cristo animato dallo Spirito Santo. Ecco un brano significativo, agli inizi della corrispondenza tra i due amici: « Non c’è da meravigliarsi se noi, pur lontani, siamo presenti l’uno all’altro e senza esserci conosciuti ci conosciamo, poiché siamo membra di un solo corpo, abbiamo un unico capo, siamo inondati da un’unica grazia, viviamo di un solo pane, camminiamo su un’unica strada, abitiamo nella medesima casa » (Ep. 6, 2).
Come si vede, è questa una bellissima descrizione di che cosa significhi essere cristiani, essere Corpo di Cristo, vivere nella comunione della Chiesa. [...]

A Nola, di cui S. Paolino è il compatrono, si tiene ogni anno, il 22 giugno se cade di domenica, altrimenti la prima domenica dopo, la Festa dei Gigli (8 Gigli chiamati nell'ordine: Ortolano, Salumiere, Bettoliere, Panettiere, Beccaio, Calzolaio, Fabbro e Sarto, in ricordo delle antiche corporazioni dei mestieri) per celebrare il ritorno in città del santo dalla prigionia ad opera dei barbari.

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Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro

San Vincenzo de' Paoli (1581-1660), sacerdote, fondatore di comunità religiose
Colloqui del 4/5/1659

Qual'è il primo atto di carità? Quale opera fa che un cuore sia animato dalla carità? Cosa esce da questo cuore, e non da un cuore che ne sia sprovvisto? È questo: fare il bene a ciascuno come vorremo ragionevolmente che fosse fatto a noi: in questo consiste il concreto della carità. È forse vero che io faccio al mio prossimo quanto mi aspetto da lui? Ah! Questo è un grande esame da fare...

Guardiamo il Figlio di Dio: che cuore di carità, che fiamma di amore! Mio Gesù, dicci un po', per favore, il motivo che ti ha portato dal cielo a venire a soffrire la maledizione della terra, le tante persecuzioni e i tormenti che hai ricevuto? O Salvatotre, o fonte dell'amore, umiliato fino a noi, fino al supplizio infame, chi ha amato il prossimo quanto tu l'hai amato? Sei venuto ad esporti a tutte le nostre miserie, a prendere forma di peccatore, a condurre una vita di sofferenze, e a soffrire una morte vergognosa, per noi. C'è forse amore simile?... Non c'è nessuno, altro che il Nostro Signore che sia così amante delle creature, da lasciare il trono di suo Padre per venire ad assumere un corpo soggetto alle infermità.

Per quale motivo? Per allacciare fra di noi, con il suo esempio e con la sua parola, la carità per il prossimo... O amici miei, se avessimo un po' di questo amore, resteremmo forse con le mani in mano? O, no! La carità non può rimanere oziosa; ci spinge alla salvezza e alla consolazione dei nostri fratelli.
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