lunedì 27 aprile 2015

Il buon Pastore e il mercenario

Commento al Vangelo: IV Domenica di Pasqua 2015 B (Gv 10,11-18)

Il Messia era stato caratterizzato dai profeti come il Pastore del suo popolo (cf Is 40,11; Ez 34,23; 37,24; Zc 13,7, ecc.), e Israele era stato chiamato gregge del Signore (cf Ez 34,5; Mic 7,14; Zc 10,3, ecc.). Gesù Cristo affermò solennemente che questi vaticini si erano avverati in Lui, proclamandosi pastore, anzi, buon pastore non solo del popolo ebreo ma di tutti gli altri che Egli avrebbe uniti al primo suo gregge, formandone un solo ovile sotto un solo pastore. Dal modo com’Egli parlò, traspare tutta la sua tenerezza verso le anime e, dal contrapposto che fece tra il buon pastore e il mercenario, tutto il dolore che provava non solo per i falsi pastori del popolo ebreo, ma per i pastori falsi e mercenari di tutti i secoli. Io sono il buon pastore – esclamò –; era venuto per dare la vita e per darla abbondantemente, e la dava alle sue pecorelle non solo pascolandole, ma immolandosi per loro; perciò soggiunse: Il buon pastore dà la vita per le sue pecorelle e, secondo l’espressione del testo greco, dà la vita in prezzo di redenzione.
Egli era l’unico pastore che pascolando si offriva, e salvando dalla morte le sue pecorelle s’immolava per esse. Nell’Eucaristia donò se stesso, offrendosi al Padre e immolandosi incruentamente, e sulla croce s’immolò cruentamente. Per confermare e rendere vivo questo grande pensiero, Gesù Cristo ritornò alla similitudine dell’ovile e delle pecorelle, e disse: Il buon pastore dà la vita per le sue pecorelle; il mercenario, invece, è chi non è pastore, e al quale non appartengono le pecorelle; egli, quando vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo rapisce e le disperde. Il mercenario poi scappa perché è mercenario e non gl’importa delle pecorelle.
I pastori di pecore conducono una vita solitaria nei campi e l’unica loro compagnia sono quei placidi animali che conducono al pascolo. Essi li amano come loro proprietà, e quasi come parte della loro vita; la docilità che esse hanno ad ogni loro cenno ispira ad essi una grande tenerezza, e la loro debolezza di fronte ai pericoli li rende solleciti nel difenderle. Un gregge è come una famiglia di cui il pastore si sente il capo, e perché le pecorelle lo riconoscono e ne ascoltano la voce, egli se ne sente quasi padre, e non esita ad affrontare dei gravi pericoli per difenderle, soprattutto contro le insidie dei lupi. Nelle solenni solitudini dei campi non c’è forse una scena più soave e commovente come quella di un gregge che pascola, e del pastore che lo vigila. Raccolte a gruppi, brucano le erbe, corrono di qua e di là, si riposano, e il loro belare è come un’armonia serena che si disperde lontano nelle ampie solitudini verdi e tranquille.
Gesù Cristo non poteva scegliere una similitudine più bella per significare l’unione delle anime a Lui, e la sua infinita tenerezza nel pascolarle.
L’arte ha raccolto in mille modi questa soave parabola, e ne ha formato innumerevoli quadri, dai quali traspare sempre la tranquilla pace delle anime che sono condotte ai pascoli da Gesù, e il suo infinito amore nel pascolarle. Egli è il buon Pastore, e le anime per essere guidate da Lui debbono essere docili, semplici, silenziose e affettuose come pecorelle. Egli le ama, le guida, le difende, le nutre e dà la vita per loro, Vittima perenne di redenzione e di amore sugli altari. È questa la sua sublime regalità, tanto diversa da quella dei reggitori di popoli, solleciti della loro gloria e del loro tornaconto. È questa la sua amorosa paternità per le anime, tanto diversa da quella di coloro che le reggono come mercenari, e che al primo pericolo che le minaccia fuggono e le lasciano in balia di quelli che le uccidono. Un pastore mercenario non ama le pecorelle, ma la paga che guadagna per il servizio che presta; il gregge anzi, gli è di fastidio, perché rappresenta il peso della sua giornata e, quando si trova di fronte ai lupi che lo assalgono, fugge per mettersi in salvo, non avendo nessun interesse a salvare le pecorelle.
Tali erano i pastori d’Israele, e tali sono i pastori degeneri che riguardano il ministero come un’occupazione qualunque e una fonte di guadagno. Non parliamo, poi, dei cosiddetti protestanti e di quelli di altre sette, i quali non solo sono mercenari, pagati per strappare le anime alla Chiesa, ma sono falsi pastori, ladri e assassini che non entrano nell’ovile per la porta, non hanno alcun mandato di reggere le anime e rappresentano essi medesimi i lupi rapaci che le uccidono e le disperdono.
Dopo aver detto che Egli è il buon pastore perché dà la vita per le pecorelle, Gesù Cristo soggiunge che Egli ha tanta premura per le sue pecorelle che le conosce ad una ad una, si comunica loro, ed esse lo conoscono. Come il Padre, conoscendo se stesso, genera il Figlio e gli comunica la vita infinita, e come il Figlio conosce il Padre, dandogli una lode infinita, così Gesù Cristo conosce le sue pecorelle, vivificandole ad una ad una, come se fosse tutto e solo per ciascuna, e dà la vita per loro, ad una ad una, di modo che ogni sua pecorella ottiene in pieno il frutto e i benefici della redenzione. Le pecorelle, poi, vivificate da Lui, lo amano perché lo conoscono e lo glorificano. C’è dunque, tra Gesù buon pastore e le sue pecorelle, un’unione d’amore che Gesù stesso paragona all’unione del Padre con Lui Verbo eterno. Egli dona loro la vita, ed esse lo glorificano e lo amano; Egli le cura singolarmente, una ad una, ed esse lo amano d’amore singolare.
Gesù parlava agli Ebrei, ed essi avrebbero potuto capire che essi solo erano i privilegiati, eletti per essere il suo ovile, e per averlo come Pastore; Egli, invece, doveva chiamare al suo Cuore tutte le genti della terra, e perciò soggiunse: Ho altre pecorelle che non sono di quest’ovile; anche quelle bisogna che io conduca; esse ascolteranno la mia voce, e si farà un solo ovile e un solo pastore. Egli chiamò i pagani alla fede, e alla fine dei tempi chiamerà alla Chiesa gli Ebrei dispersi, formando così di tutte le nazioni un solo ovile sotto un solo pastore, il Papa. Dopo un periodo di apostasia generale, Gesù, con l’effusione di nuove grazie, chiamerà tutti i popoli al suo Cuore, e Israele finalmente conoscerà la sua voce, lo crederà come Messia e Redentore, si unirà alla Chiesa Cattolica, e si formerà così un solo ovile di tutte le genti, in una grande glorificazione di Dio su tutti i cuori. Questa glorificazione sarà frutto del Sacrificio della croce, e del rinnovarsi di questo Sacrificio nell’Eucaristia, e il Sacrificio si realizzerà perché Gesù si offrirà completamente alla divina volontà, dando la vita sulla croce, riprendendola nella risurrezione, e rinnovandone, poi, l’offerta sugli altari. Per questo Gesù soggiunse: Il Padre mi ama perché io do la vita per riprenderla di nuovo.Nessuno me la toglie, ma io la dono da me stesso, e ho il potere di darla e il potere di prenderla di nuovo. Questo comandamento ho avuto dal Padre mio.


Ai pastori d’Israele che lo perseguitavano in nome della loro autorità, Gesù, dunque, annuncerà che Egli solo era il buon pastore, e che la loro autorità era tramontata. Ad essi, che avevano congiurato di ucciderlo, dichiarò che sarebbe morto solo per propria elezione, e che questo era conforme al piano della divina volontà. Annunciò la costituzione del nuovo suo ovile, formato dalle genti tutte della terra, e abbatté così, per sempre, le barriere che avevano separato Israele dagli altri popoli. Egli, prendendo la croce, avrebbe preso in mano lo scettro della sua regalità e il vincastro del suo pastorale ministero d’amore, portando al pascolo le sue pecorelle.


Padre Dolindo Ruotolo
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