mercoledì 13 aprile 2011
171 - Se il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero
La fede autentica non si riduce a un'adesione momentanea al Cristo, ma esige perseveranza e fedeltà con Gesù, Parola vivente del Padre. Il vero discepolo di Cristo si riconosce da questa permanenza continua e intima in Gesù. Solo allora si conosce la verità che libera da ogni schiavitù.
Si tratta di una conoscenza esistenziale e vitale, di una comunione intima con il Figlio di Dio. La conoscenza della verità non è dunque qualcosa di speculativo. La verità è Gesù in persona (cfr Gv 14,6). La verità, ossia Cristo stesso, in quanto manifestazione della vita divina, opererà la liberazione dell'uomo, come è chiarito in 8,36. Quindi la libertà piena si vive nella fede, credendo esistenzialmente in Gesù.
Le parole di Gesù provocano la reazione dei suoi interlocutori, offesi per le affermazioni sulla liberazione operata dalla verità. I giudei si proclamano persone libere e figli di Abramo. Essi protestano di non essere mai stati schiavi di nessuno. Per Gesù la libertà e la schiavitù sono di ordine morale, mentre i suoi interlocutori intendono questi termini in chiave politica.
Gesù parla della schiavitù e della libertà morale in relazione al peccato. Egli insegna che la vera schiavitù è quella di ordine religioso: è schiavo chi fa il peccato. In questi testi di Giovanni il peccato indica l'opzione fondamentale contro la luce, ossia l'incredulità. La frase "lo schiavo non rimane nella casa per sempre" contiene una velata minaccia di espulsione dei giudei dalla casa di Dio, dal regno e dall'amicizia con il Padre.
Nel v. 35 il termine "figlio" è preso in senso generico, per essere applicato a tutti gli uomini; esso però è aperto al significato specifico divino, per indicare il Figlio unigenito del Padre. In realtà nel v. 36 abbiamo questo passaggio. Qui si parla del Figlio liberatore. Gesù è il Logos incarnato, la verità personificata, che sola può liberare l'uomo dalla schiavitù del peccato. Egli è il Figlio di Dio che rimane per sempre nella casa del Padre.
Dopo aver sviluppato la tematica della vera schiavitù e della vera libertà, Gesù contesta l'affermazione dei giudei di essere discendenza di Abramo e dimostra loro che sono figli di un altro padre.
È un linguaggio misterioso che sarà chiarito nella scena successiva (v. 44). Per discendenza naturale gli ebrei sono figli di Abramo, ma per l'animo e i comportamenti sono figli del diavolo. Tentando di uccidere Gesù fanno un'opera diabolica perché il diavolo è omicida fin dal principio.
I giudei, con la loro incredulità, rinnegano la loro origine da Abramo, uomo di grande fede. Il loro intento omicida si spiega con il rifiuto della rivelazione divina del Cristo: "La mia parola non penetra in voi".
L'opposizione tra Gesù e i giudei sta nell'influsso dei rispettivi padri. Il Logos incarnato rivela ciò che ha visto e continua a vedere nel Padre. I giudei rivelano ciò che ispira loro il demonio.
I giudei, con gli atteggiamenti pratici, rinnegano la loro discendenza da Abramo. Essi non solo non compiono le opere del patriarca, caratterizzate da una fede profonda in Dio e dall'adesione incondizionata alla sua parola (cfr Gen 12,1ss; 15,1-7), ma addirittura si oppongono all'inviato del Padre e cercano di ucciderlo. L'allusione finale di Gesù sulla vera paternità dei giudei suscita la loro protesta.
La fornicazione indica l'infedeltà idolatrica. I giudei quindi protestano la loro fedeltà all'alleanza mosaica e proclamano di non aver tradito il patto con Dio adorando altre divinità: "Abbiamo un solo padre, Dio". Questa espressione richiama l'inizio dello shemà: "Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo" (Dt 6,4). Nell'Antico Testamento Jahvè è presentato spesso come padre d'Israele.
Se i giudei avessero un solo padre, Dio, essi dovrebbero amare Gesù perché è stato mandato dal Padre. Gesù vuole dimostrare che i giudei non sono figli di Dio, perché non amano l'inviato di Dio che è uscito dal Padre.
Padre Lino Pedron
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martedì 12 aprile 2011
170 - Avrete innalzato il Figlio dell’uomo
Gesù, per stimolare i suoi avversari a cambiare atteggiamento nei suoi confronti, diventa polemico e fa balenare la minaccia della morte nel peccato. Egli sta per tornare da Dio: con la sua passione e risurrezione passa da questo mondo al Padre (cfr Gv 13,1); i suoi nemici non potranno raggiungerlo nella gloria eterna; anzi, con la morte nel peccato di incredulità, si separeranno eternamente da lui. La reazione dei giudei è molto più sarcastica che in 7,35. Lì i suoi avversari ipotizzavano il suo trasferimento in terra pagana, qui parlano di suicidio.
L'idea che la fonte della vita e della luce possa suicidarsi è possibile solo ai figli del diavolo. In nessun altro passo del vangelo troviamo espressioni più sarcastiche e blasfeme contro il Figlio di Dio. La risposta di Gesù all'insulto satanico dei giudei è tagliente e aspra: voi siete dal basso, dal mondo tenebroso del maligno, io sono dall'alto, di origine divina. In Gv 8, 44 Gesù espliciterà maggiormente l'origine satanica dei suoi avversari: il loro padre è il diavolo, l'omicida fin dal principio.
Scrive Loisy: "I giudei pensano di deridere il Cristo; ma sono loro tragicamente ridicoli". Se i giudei si ostinano a non aprirsi alla luce, che è Cristo, la loro sorte è segnata: essi moriranno nei loro peccati. L'ostinazione nel rifiuto della luce (cfr Gv 9,41), cioè l'opposizione fondamentale contro il Figlio di Dio, conduce alla morte eterna (cfr 1Gv 5,16-17). Questo è il peccato specifico del mondo tenebroso (cfr Gv 16,8-9). La risurrezione e la vita si trovano in Gesù; per non morire bisogna credere alla sua divinità (cfr Gv 11,25-26).
Le parole "Io sono" indicano con chiarezza la divinità di Cristo. "Io sono" è la traduzione del nome ebraico di Jahvè, quindi esprime la divinità della persona di Gesù. Gli interlocutori di Gesù non hanno ancora afferrato la sua dichiarazione, davvero inaudita, di essere Dio. La comprensione piena dell'"Io sono" è riservata alla scena finale (vv. 58-59). Per questo i giudei chiedono a Gesù: "Tu chi sei?". L'interrogativo: "Chi è Gesù" è fondamentale nel vangelo di Giovanni. La risposta di Gesù appare molto enigmatica.
Fin dal principio il Logos è ciò che dice, ossia la parola di Dio (Gv 1,1), la manifestazione della vita e dell'amore del Padre. Il Logos incarnato non manifesta solo il mistero di Dio, ma conosce bene anche l'uomo; quindi può parlare dei suoi interlocutori senza sbagliarsi. Gesù rivela al mondo ciò che ha udito dal Padre che lo ha mandato. L'evangelista annota: i giudei non capirono che parlava loro del Padre. La divinità di Gesù sarà riconosciuta quando sarà innalzato sulla croce. Anche i giudei per avere la vita dovranno credere nel Logos incarnato esaltato sulla croce. Con l'esaltazione dell'uomo Gesù sulla croce non avverrà solo il riconoscimento della sua divinità, ma anche quello della sua funzione di rivelatore definitivo, in piena e perfetta dipendenza dal Padre. Il Padre e il Figlio vivono sempre intimamente uniti e formano una cosa sola per cui il Logos incarnato non può mai essere abbandonato da Dio. Questa unità perfetta tra Gesù e il Padre ha come conseguenza il perfetto compimento della volontà del Padre. Nella Trinità esiste una sola volontà divina. La pausa descrittiva sulla fede di molte persone in ascolto serve come passaggio a un'altra scena nella quale è svolta una nuova tematica teologica, quella della vera libertà dei figli di Abramo. Anche qui sembra trattarsi di una fede superficiale, come quella di Nicodemo e degli altri abitanti di Gerusalemme.
Padre Lino Pedron
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lunedì 11 aprile 2011
169 - Il pericolo è l'abitudinarismo
Mi piace parlare di via, di cammino, perché siamo in viaggio, diretti alla casa del Cielo, alla nostra Patria. Ma sappiate che una via, benché possa presentare alcuni tratti di particolare difficoltà, benché ci faccia guadare un fiume ogni tanto o attraversare un piccolo bosco quasi impenetrabile, più sovente è qualcosa di comune, senza sorprese. Il pericolo è allora l'abitudinarismo, il pensare che nelle cose consuete, di ogni istante, Dio non c'è, perché sono così semplici, tanto 'ordinarie'!
Quei due discepoli di cui narra san Luca erano diretti a Emmaus. Il loro passo era naturale, come quello di tanti altri che percorrevano la medesima strada. E lì, con altrettanta naturalezza, appare loro Gesù, e cammina al loro fianco, intrattenendoli in una conversazione che allevia la fatica. Mi piace immaginare la scena: è sera inoltrata, e soffia una brezza leggera. Intorno, campi di grano già alto e vecchi olivi coi rami inargentati nella mezzaluce.
Gesù lungo la via. Signore, sei sempre tanto grande! Ma mi commuovi quando ti degni di seguirci, di cercarci, in mezzo al nostro andirivieni di ogni giorno. Signore, concedimi la freschezza di spirito, lo sguardo puro, la mente chiara, per poterti riconoscere quando giungi senza alcun segno esterno della tua gloria.
Il percorso si conclude in prossimità del villaggio, e i due discepoli che, senza essersene accorti, sono stati feriti nel più profondo del cuore dalla parola e dall'amore del Dio fatto uomo, si dolgono che Egli se ne vada. Gesù, infatti, li saluta facendo mostra di dover proseguire [Lc 24, 28]. Lui, il Signore, non vuole mai imporsi. Vuole che lo chiamiamo liberamente, quando abbiamo intravisto la purezza dell'Amore che Egli ci ha messo nell'anima. (Amici di Dio, nn. 313-314)
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168 - Richiesta di preghiere 17/2011
42) Ginetta, dalla Francia, chiede preghiere per Damien, perché lo purifichi, lo guarisca e lo salvi dalle grinfie del maligno.
Pour que Damien vive sa vie d'Enfant de Dieu, sauvé par la Croix du Christ! par le Saint Nom de Jésus, par le Sang précieux de l'Agneau de Dieu, par la puissance de l'Esprit Saint Libérateur, que Dieu Tout Puissant arrache Damien des griffes de satan. Qu'il le libère totalement et définitivement des mauvais esprits qui sont entrés dans son corps. Qu'il le purifie et qu'il le guérisse de leur action mauvaise. Que Damien soit en Jésus une créature nouvelle , rayonnante de la Paix, de la Joie, de l'Amour de DIEU. Amen!
43) Fabio dal Lazio: Una preghiera forte per mio fratello Paolo, che non ha più le forze per pregare. Che la nostra Mamma sia di conforto a Lui, alla sua famiglia e a tutti noi. Mammina aiuta il tuo semplice, umile, buon Paolo. Ti preghiamo
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domenica 10 aprile 2011
167 - Seguire Cristo: questo è il segreto
Come potremo superare tali inconvenienti? Come riusciremo a rafforzarci nella decisione iniziale, che incomincia a sembrarci molto pesante? Ispirandoci al modello che la santissima Vergine, nostra Madre, ci mostra: e un cammino molto ampio, che necessariamente, però, deve passare per Cristo. Per avvicinarci a Dio dobbiamo intraprendere la via giusta, che è la santissima umanità di Cristo. Per questo, da sempre ho consigliato la lettura di buoni libri che narrino la Passione del Signore. Tali scritti, pieni di sincera devozione, ci fanno pensare al Figlio di Dio, uomo come noi e vero Dio, che ama e che soffre nella sua carne per la redenzione del mondo.
Nello sforzo di identificarci con Cristo, mi piace distinguere quattro gradini: cercarlo, trovarlo, frequentarlo, amarlo. Forse vi rendete conto di trovarvi solo nella prima tappa. Cercatelo con fame, cercatelo in voi stessi con tutte le vostre forze. Se agite con tale impegno, oso garantirvi che lo avete già trovato, e che avete incominciato a frequentarlo e ad amarlo, ad avere la vostra conversazione nei cieli [Cfr Fil 3, 20].
Prego il Signore affinché decidiamo di alimentare nella nostra anima l'unica ambizione nobile, l'unica che vale: camminare con Cristo, come sua Madre e il santo Patriarca, con desiderio, con abnegazione, senza trascurare nulla. Parteciperemo alla felicità dell'amicizia divina — in un raccoglimento interiore compatibile con i nostri doveri professionali e civili — e gli renderemo grazie per la delicatezza e la chiarezza con cui ci insegna a compiere la Volontà del Padre nostro che è nei cieli.
Seguire Cristo: questo è il segreto. Accompagnarlo così da vicino, da vivere con Lui, come i primi dodici; così da vicino, da poterci identificare con Lui. Non tarderemo ad affermare, se non avremo posto ostacoli alla grazia, che ci siamo rivestiti di Gesù Cristo, nostro Signore [Cfr Rm 13, 14].
Il Signore si riflette nella nostra condotta, come in uno specchio. Se lo specchio è quale deve essere, accoglierà il volto amabilissimo del nostro Salvatore senza sfigurarlo, senza caricature: e gli altri avranno la possibilità di ammirarlo, di seguirlo. (Amici di Dio, nn. 299-303)
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166 - Lazzaro
Il racconto della rianimazione di Lazzaro è molto lungo, eppure la parte dedicata al miracolo è brevissima, due versetti soltanto (vv. 43-44); il resto è costituito da una serie di dialoghi che hanno lo scopo di introdurre il lettore nel livello più profondo del testo, là dove si può cogliere il vero significato del segno operato da Gesù. Ho parlato di rianimazione di Lazzaro, non di risurrezione perché un conto è ritornare in questo mondo, riprendere questa vita materiale ancora segnata dalla morte e un altro è lasciare definitivamente questa vita e, come è successo a Gesù nella Pasqua, essere introdotti nel mondo di Dio dove la morte, nessun tipo di morte, ha più accesso. Riportare di qui è rianimare, condurre di là è risorgere.
Fatta questa precisazione, accostiamoci al brano cominciando a rilevare alcune incongruenze e alcuni dettagli poco verosimili. Nella pagina di cronaca di un giornale, dove la notizia deve essere riferita il più fedelmente possibile, ci sorprenderebbero, nel vangelo di Giovanni invece costituiscono indizi preziosi: orientano verso il messaggio teologico del racconto. Provo ad elencarli.
- Nei primi versetti (1-3) compare una famiglia piuttosto strana. Non ci sono i genitori, non si parla di mariti, di mogli, di figli, ma solo di fratelli e sorelle.
- Nel v. 6 è riferito un comportamento inspiegabile di Gesù: viene a conoscenza che Lazzaro sta male e, invece di andarlo a curare,si ferma per altri due giorni; sembra proprio che lo voglia lasciar morire. Perché non interviene? - Poco dopo fa un’affermazione sconcertante: “Lazzaro è morto e io sono contento di non essere stato là” (v. 15). Come può rallegrarsi di non aver impedito la morte dell’amico?
- Altra difficoltà: in quel tempo non c’erano telefoni, come ha fatto Marta a sapere che Gesù stava arrivando (v. 17)? E, mentre lei va a chiamare Maria (v. 28), cosa fa Gesù fermo sulla strada? Perché aspetta che sia Maria ad uscire da Betania e ad andare da lui? Noi non ci saremmo comportati in questo modo: ci saremmo immediatamente diretti alla casa del defunto per porgere le condoglianze.
- Nei vv. 25-26 viene riportata una frase di Gesù non facile da interpretare: “Chi crede in me, anche se muore, vivrà e chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno”. Come fa a promettere che il suo discepolo non morrà mai quando noi constatiamo che i cristiani muoiono come tutti gli altri? Cosa intende dire?
- Al v. 35 si dice che Gesù piange per la morte dell’amico. Come si spiega questo suo comportamento, se già sa che poi lo risusciterà? Sta fingendo?
- Infine: la famiglia di Betania scompare senza lasciare alcuna traccia nel vangelo di Giovanni e non compare più in tutto il resto del NT. Dove sono finite queste tre persone tanto care a Gesù? È strano anche il fatto che un miracolo così clamoroso non sia neppure menzionato dagli altri evangelisti. Questi particolari sono il segno inequivocabile che Giovanni ha voluto offrire ai suoi lettori non il freddo resoconto di un fatto, ma un denso brano di teologia.
Prendendo spunto da una guarigione che aveva suscitato una notevole impressione perché il malato era ritenuto morto, l’evangelista ha affrontato il tema centrale del messaggio cristiano: Gesù, il Risorto, è il Signore della vita. Cominciamo dal significato che Giovanni intende attribuire alla famiglia di Betania, composta soltanto da fratelli e sorelle. Rappresenta la comunità cristiana dove non sono ammessi né superiori né inferiori, ma solo fratelli e sorelle. Un intenso clima affettivo unisce queste persone a Gesù. L’evangelista sottolinea con insistenza l’amicizia del Maestro con Lazzaro (vv. 3.5.11.36). È il simbolo del profondo legame fra Gesù ed ogni discepolo: “Non vi chiamo più servi – dirà durante l’ultima cena – ma vi ho chiamato amici (Gv 15,15). In questa comunità accade un fatto che sconcerta, pone di fronte a un enigma insolubile: la morte di un fratello. Che risposta dà Gesù al discepolo che gli chiede se questo tragico evento può avere un senso? Chi vuole bene a un amico non lo lascia morire. Se era amico di Lazzaro ed è nostro amico, perché non impedisce la morte? Come Marta e Maria anche noi non comprendiamo perché egli “lasci passare due giorni”. Da lui ci aspetteremmo, come segno del suo amore, un intervento immediato.
Il velato rimprovero che gli muovono le due sorelle è anche il nostro: “Se tu fossi stato qui, nostro fratello non sarebbe morto” (vv. 21.32). La morte di una persona cara, la nostra morte, mettono a dura prova la fede, fanno sorgere il dubbio che egli “non sia qui”, che non ci accompagni con il suo amore. Lasciando morire Lazzaro, Gesù risponde a questi interrogativi: non è sua intenzione impedire la morte biologica, non vuole interferire nel decorso naturale della vita.
Non è venuto per rendere eterna questa forma di vita, ma per introdurci in quella che non ha fine. La vita in questo mondo è destinata a concludersi, è bene che finisca. In questa prospettiva andrebbe riconsiderata la validità del rapporto che tanti cristiani hanno instaurato con Cristo e con la religione.
Quando questa si riduce a pressanti richieste di interventi prodigiosi, sfocia inevitabilmente in crisi di fede e nel dubbio che “egli non sia qui” dove ci aspetteremmo che fosse, dove più abbiamo bisogno di lui: nella malattia, nel dolore, nella sventura. Il dialogo con i discepoli (vv. 7-16) serve all’evangelista per mettere sulla loro bocca le nostre incertezze e le nostre paure di fronte alla morte. È la reazione dell’uomo che teme che essa segni la fine di tutto. È questa paura il nemico più subdolo del discepolo.
Chi teme la morte non può vivere da cristiano.
Essere discepoli significa accettare di perdere la vita, donarla per amore, morire come il chicco di grano che, solo se è posto nella terra, porta molto frutto (Gv 12,24-28). Nelle parole di Gesù, la morte è presentata nella sua giusta prospettiva. Egli afferma di essere contento di non aver impedito quella dell’amico Lazzaro (v. 15) perché per lui la morte non è un evento distruttivo, irreparabile, ma segna l’inizio di una condizione infinitamente migliore della precedente. Siamo così giunti alla parte centrale del brano, il dialogo con Marta(vv. 17-27). Lazzaro già da quattro giorni è nel sepolcro. In quel tempo si riteneva che, nei primi tre giorni, la persona non fosse ancora completamente morta. Solo al quarto giorno la vita l’abbandonava in modo definitivo. Giovanni non vuole informarci sulla data esatta del decesso, vuole dirci che Lazzaro era morto e basta. È la premessa necessaria alla domanda cui vuole dare una risposta: cosa può fare Gesù per chi è realmente e definitivamente morto? Nel dialogo che segue, Gesù conduce Marta a capire che senso abbia la morte di un discepolo (di un fratello della comunità cristiana). “Se tu fossi stato qui” è la dichiarazione di resa dell’uomo di fronte a un evento che lo supera, che si fa beffe dei suoi sforzi per respingerlo. È anche l’espressione del dubbio che nella morte Dio sia assente.
Se Dio esiste, perché la morte?
Marta appartiene al gruppo di coloro che, a differenza dei sadducei, credono nella risurrezione dei morti. È convinta che, alla fine del mondo, suo fratello Lazzaro ritornerà in vita assieme a tutti i giusti e prenderà parte al regno di Dio. Questo suo modo di intendere la risurrezione (simile forse a quello di molti cristiani di oggi) non consola nessuno. È troppo lontana e non ha alcun senso. Perché Dio dovrebbe far morire per poi riportare in vita? Perché far aspettare tanto? E come può l’anima rimanere senza il corpo? Infine, una simile risurrezione è poco credibile: se una persona muore, Dio può certo ricrearla, ma, in tal caso, farebbe un clone, non la persona di prima. Il cristiano non crede in una morte e poi in una risurrezione che avrà luogo alla fine del mondo. Crede che l’uomo redento da Cristo non muore.
Vediamo di capire questo messaggio nuovo e straordinario che Gesù annuncia a Marta.
Egli dichiara: “Chi crede in me non muore” (v. 26).
Che significa? Come può non morire una persona che noi vediamo spirare e diventare un cadavere?
Per spiegarci è necessario ricorrere a paragoni. Tutta la nostra esistenza è caratterizzata da uscite e da entrate: usciamo dal nulla ed entriamo nel grembo di nostra madre. Compiuta la gestazione, usciamo per entrare in questo mondo caratterizzato da tanti segni di morte. Sono forme di morte la solitudine, l’abbandono, la lontananza, il tradimento, l’ignoranza, la malattia, il dolore.
La nostra vita qui non è mai completa, è sempre soggetta a limiti. Non può essere questo il mondo definitivo, il nostro destino ultimo; per vivere in pienezza e senza morte, dobbiamo uscirne. Supponiamo che nel grembo di una mamma ci siano due gemelli che possono vedere, capire, parlarsi durante i nove mesi della gestazione. Essi conoscono solo il loro piccolo mondo e non immaginano come sia la vita fuori. Non sanno che le persone si sposano, lavorano, viaggiano, non hanno idea che esistono animali, piante, fiori, spiagge. Conoscono solo la forma di vita di cui hanno esperienza. Passati nove mesi il primo gemello nasce. Colui che è rimasto, ancora per breve tempo, in grembo alla madre, certamente pensa: “Mio fratello è morto, non c’è più, è scomparso, mi ha lasciato”... e piange. Ma il fratello non è morto. Ha solo lasciato una vita ristretta, breve, limitata ed è entrato in un’altra forma di vita.
Il discepolo – spiega Gesù a Marta – non sperimenta affatto la morte, ma nasce ad una nuova forma di vita, entra nel mondo di Dio, prende parte ad una vita che non è più soggetta ai limiti e alle morti, come accade invece su questa terra. È una vita senza fine.
Di più non possiamo dire perché, se la descrivessimo, non faremmo che proiettarvi le forme di questa.
Rimane una sorpresa che Dio tiene in serbo: “Occhio non vide, orecchio non udì, né mai è entrato in cuore di uomo, ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano” (1 Cor 2,9). Nella prospettiva cristiana, dunque, la vita in questo mondo è una gestazione e la morte è verificata da chi rimane, non da chi muore. A questo punto siamo in grado di comprendere la ragione per cui Gesù si rallegra di non avere impedito la morte di Lazzaro. Egli la vede nell’ottica di Dio: come il momento più importante e più lieto per l’uomo. Giustamente i primi cristiani chiamavano “giorno della nascita” quello che per gli altri uomini è il giorno funesto in cui si tuffano nel nulla. Celebre è la sentenza di Lao-Tze: “Ciò che per il bruco è la fine del mondo, per il resto del mondo è una farfalla”. Il bruco non muore: scompare come bruco, ma continua a vivere come farfalla. È un’altra immagine che ci aiuta a capire la vittoria riportata da Cristo sulla morte. Dopo aver ascoltato le parole di Gesù, Marta pronuncia una significativa professione di fede; riconosce che Gesù è colui che dona questa vita: “Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo, il figlio di Dio, l’atteso salvatore che doveva venire al mondo” (v. 27). Non ci soffermiamo sul dialogo fra Gesù e Maria (vv. 28-33) perché non aggiunge nulla di nuovo a quanto già detto. Notiamo soltanto che Gesù non entra in Betania, dove i giudei sono andati a consolare le sorelle. Egli non è venuto per porgere condoglianze, ma per donare la vita e vuole che anche Maria esca dalla casa dove tutti stanno piangendo. Il suo fremito – “si commosse e si turbò” – mostra quanto anch’egli senta profondamente, come ogni uomo, il dramma della morte.
È importante la scena conclusiva (vv. 34-42). Si apre con il pianto di Gesù. Il cristiano non può dirsi tale se non crede che la morte non è altro che una nascita, tuttavia non è insensibile e non può non versare lacrime quando un amico lo lascia. Sa che non è morto, è felice che viva con Dio, ma è triste perché, per un certo tempo, dovrà rimanere separato da lui. Ci sono però due modi di piangere: uno è quello inconsolabile e scomposto di chi è convinto che, con la morte, è tutto finito. L’altro è quello di Gesù che, davanti alla tomba, non può trattenere le lacrime. Queste due forme di pianto sono espresse nel testo greco con due verbi diversi.
Per Maria, per Marta, per i giudei è usatoklaiein (v. 33) che indica il pianto accompagnato da gesti di disperazione; di Gesù invece si dice: edákrusen, che significa: “le lacrime cominciarono a scorrergli dagli occhi” (v. 35). Solo questo pianto sereno e dignitoso è cristiano. Al pianto segue un ordine: “Togliete la pietra!”. È rivolto alla comunità cristiana e a tutti coloro che ancora pensano che il mondo dei defunti sia separato e non abbia comunicazione con quello dei vivi. Chi crede nel Risorto sa che tutti sono vivi, anche se sono partecipi di due forme di vita diverse. Tutte le barriere sono state abbattute, tutte le pietre sono state rimosse nel giorno di Pasqua, ora si passa da un mondo all’altro senza morire. La preghiera che Gesù rivolge al Padre (vv. 41-42) non è la richiesta di un miracolo, ma di una luce per la gente che gli sta attorno. Chiede che tutti possano comprendere il significato profondo del segno che sta per compiere e che giungano a credere in lui, Signore della vita. Il grido “Lazzaro vieni fuori!” è il compimento della sua profezia: “È giunta l’ora in cui i morti udranno la voce del figlio di Dio e vivranno. Tutti coloro che sono nei sepolcri ascolteranno la sua voce e ne usciranno” (Gv 5,25-29). Difatti “il morto”, con tutti i segni che caratterizzano la sua condizione, “i piedi e le mani avvolti in bende e il volto coperto da un sudario” (v. 44), esce.
“Il morto” – dice il testo. Sì, perché è con il morto, con chi è e rimane definitivamente morto (da quattro giorni nel sepolcro) che Gesù mostra il suo potere vivificante: non riportandolo di qui (questa sarebbe una vittoria effimera, non definitiva sulla morte), ma portandolo con sé nella gloria di Dio. “Scioglietelo e lasciatelo andare” (v. 44)– ordina infine.
L’invito è rivolto ai fratelli della comunità che piangono per la perdita di una persona cara. Lasciate che “il morto” viva felice nella sua nuova condizione. Il veggente dell’Apocalisse la descrive con immagini suggestive: “Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi, non vi sarà più morte, né lutto, né grida di dolore. Sì, le cose di prima sono passate” (Ap 21,4).
Ci sono molti modi per tentare di trattenere il defunto: visite ossessive al cimitero (che è come cercare tra i morti colui che è vivo), l’attaccamento morboso a effetti personali, il ricorso ai medium per stabilire contatti…
È doloroso essere lasciati da un amico, ma è egoistico volerlo trattenere, sarebbe come impedire a un bambino di nascere. “Scioglilo, lascialo andare!” – ripete oggi, con dolcezza, Gesù ad ogni suo discepolo che non si rassegna alla scomparsa di un fratello o di una sorella.
Fernando Armellini (Biblista)
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sabato 9 aprile 2011
165 - Non ricusiamo il dovere di vivere
Vi libererò dalla schiavitù, in qualunque luogo siate dispersi [Ger 29, 14]. Ci liberiamo dalla schiavitù, per mezzo dell'orazione: siamo e ci sentiamo liberi, sulle ali di un cantico d'anima innamorata, un canto d'amore che ci sprona a desiderare di non separarci da Dio. E un modo nuovo di camminare sulla terra, un modo soprannaturale, divino, meraviglioso.
Ricordando tanti scrittori castigliani del Cinquecento, forse anche noi vorremmo assaporarne l'esperienza: vivo perché non vivo, è Cristo che vive in me [Cfr Gal 2, 20]. Si accoglie allora con gioia il dovere di lavorare in questo mondo, e per molti anni, perché Gesù ha pochi amici sulla terra.
Non ricusiamo il dovere di vivere, di spenderci — spremuti ben bene — al servizio di Dio e della Chiesa. Così: in libertà, in libertatem gloriae filiorum Dei [Rm 8, 21], qua liberiate Christus nos liberavit [Gal 4, 31]; con la libertà dei figli di Dio, che Cristo ci ha guadagnato morendo sul legno della Croce. Può darsi che, fin dal principio, si alzino nuvole di polvere, e anche che i nemici della nostra santificazione impieghino una tecnica di terrorismo psicologico — di abuso di potere — così violenta e ben orchestrata, da attirare nella loro assurda direzione perfino chi, per molto tempo, ha mantenuto ben altra condotta, più logica e più retta.
E benché la loro voce dia un suono da campana fessa, perché non è fusa in buon metallo ed è ben diversa dal richiamo del pastore, abusano della parola che è uno dei doni più preziosi che l'uomo abbia ricevuto da Dio, dono bellissimo per esprimere alti pensieri d'amore e di amicizia per il Signore e per le sue creature, al punto da far intendere il motivo per cui san Giacomo afferma che la lingua è un mondo d'iniquità [Gc 3, 6].
I danni che può produrre sono tanti: menzogne, denigrazioni, diffamazioni, soperchierie, insulti, mormorazioni tendenziose.(Amici di Dio, nn. 297-298)
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164 - Sussidio per la confessione

1. Dopo esserti preparato con la preghiera e aver fatto l’esame di coscienza, ti presenti per fare la tua confessione.
Il sacerdote ti accoglie invitandoti a fare il segno della croce:
Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.
Rispondi: Amen.
2. Il sacerdote ti esorta ad esporre con retta coscienza i tuoi peccati confidando nell’infinita misericordia di Dio:
Il Signore che illumina con la fede i nostri cuori, ti dia una vera conoscenza dei tuoi peccati e della sua misericordia.
Rispondi: Amen.
3. Incominci la tua confessione dicendo da quanto tempo non ti confessi e esponendo con semplicità, chiarezza, umiltà e brevità tutti i peccati mortali dall’ultima confessione e almeno alcuni peccati veniali.
4. Il sacerdote ti può rivolgere alcune domande e darti dei consigli adatti. Anche tu puoi chiedere dei suggerimenti per il tuo cammino spirituale o spiegazioni su alcune problematiche che non ti sono chiare.
5. Il Sacerdote ti esorta a recitare una preghiera che esprima il tuo pentimento. Potrai recitare una di queste preghiere:
Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati, perché peccando ho meritato i tuoi castighi, e molto più perché ho offeso te, infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa. Propongo col tuo santo aiuto di non offenderti mai più e di fuggire le occasioni prossime di peccato. Signore, misericordia, perdonami.
O Gesù di amore acceso non ti avessi mai offeso, o mio caro e buon Gesù con la tua santa grazia non ti voglio offendere più né mai più disgustarti, perché ti ama sopra ogni cosa. Gesù mio, misericordia.
6. Il Sacerdote, dopo averti proposto la penitenza, ti dà l’assoluzione con queste parole:
Dio, Padre di misericordia, che ha riconciliato a sé il mondo nella morte e risurrezione del suo Figlio, e ha effuso lo Spirito Santo per la remissione dei peccati, ti conceda, mediante il ministero della Chiesa, il perdono e la pace.
E io ti assolvo dai tuoi peccati Nel nome del Padre e del Figlio E dello Spirito Santo.
Rispondi. Amen
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163 - Il Cristo viene forse dalla Galilea?
La parola "Cristo" indica il "consacrato" di Dio, che avrebbe realizzato le attese definitive del popolo di Dio, portando la pace e la pienezza dei beni della salvezza. Non tutti gli ascoltatori di Gesù vedono in lui il Cristo: alcuni ritengono impossibile tale riconoscimento per la sua provenienza dalla Galilea: la Scrittura infatti è molto esplicita a questo riguardo (cfr Gv 7,41-42). Nella scena finale di questo capitolo, i sommi sacerdoti e i farisei argomentano allo stesso modo. La sentenza dei capi: "Dalla Galilea non sorge profeta" (v. 52) chiude l'ultimo atto di questo dramma sull'origine del Messia. In Gv 7,30 vi era già stato un tentativo per arrestare Gesù; esso però era andato a vuoto perché non era ancora giunta l'ora della sua passione e risurrezione. Anche in 7,44 il tentativo dei giudei non riesce. La risposta delle guardie mette in risalto il fascino che emanava da Gesù. Nella loro semplicità questi uomini sono presi da stupore e da ammirazione per le parole di Gesù. I farisei invece reagiscono con stizza e manifestano apertamente la loro animosità e il loro accecamento. Per essi Gesù è un seduttore che abbindola la gente ignorante (cfr Gv 7,12; Mt 27,63). L'arroganza dei farisei raggiunge il colmo quando considera maledetto il popolo che non conosce la Legge: si trattava di contadini, di analfabeti, di servi. Questo disprezzo dei dotti per gli ignoranti e gli umili è bene documentato negli scritti giudaici. Non tutti i capi però condividevano questo atteggiamento ostile dei sommi sacerdoti e dei farisei. Nicodemo dissentì dal giudizio dei suoi colleghi ed ebbe il coraggio di prendere le difese di Gesù appellandosi alla legge mosaica. Nella Legge è prescritto di ascoltare le cause di tutti i fratelli senza avere riguardi personali (Lv 19,15; Dt 1,16-17) e di indagare con diligenza per evitare false testimonianze (Dt 19,15-20). I capi del popolo reagiscono alla contestazione di Nicodemo circa la legalità del loro atteggiamento e lasciano trasparire sdegno e irritazione. In merito all'origine del Messia la Scrittura è chiara: il Cristo è un discendente di Davide (2Sam 7,12-16; Is 11,1-2; Ger 23,5-6; 33,15; Sal 89,5.37) e deve sorgere da Betlemme di Giudea (Mi 5,1). Quindi il profeta di Nazaret non poteva essere assolutamente il Messia. Giovanni ora può chiudere questa parte dello scontro tra Gesù e le autorità giudaiche, facendoci capire che la vita di Gesù è ormai volta verso l'epilogo della croce.
Padre Lino Pedron
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giovedì 7 aprile 2011
162 - La tristezza è la scoria dell'egoismo
Se siamo figli di Dio, come possiamo esser tristi? La tristezza è la scoria dell'egoismo; se cerchiamo di vivere per il Signore, non ci mancherà la gioia, anche se scopriamo in noi errori e miserie. La gioia penetra a tal punto nella vita d'orazione, che non si può fare a meno di mettersi a cantare: perché amiamo, e cantare è cosa da innamorati. Se viviamo in questo modo, realizzeremo nel mondo un compito di pace; sapremo rendere amabile agli altri il servizio al Signore, perché Dio ama chi dona con gioia [2 Cor 9, 7]. Il cristiano è uno dei tanti nella società; ma dal suo cuore traboccherà la gioia di chi si propone di realizzare, con l'aiuto costante della grazia, la Volontà del Padre. E nel fare ciò non si sente vittima, né in situazione di inferiorità, né coartato. Cammina a testa alta, perché è uomo e perché è figlio di Dio.
La nostra fede dà pieno rilievo a tutte queste virtù che nessuno dovrebbe trascurare di coltivare. Nessuno può superare il cristiano in umanità. Perciò chi segue Cristo è capace — non per merito proprio, ma per grazia di Dio — di comunicare a quanti lo circondano ciò che sovente intuiscono, ma non arrivano a comprendere: che la vera felicità, l'autentico servizio al prossimo, passano necessariamente attraverso il Cuore del nostro Redentore,perfectus Deus, perfectus homo. (Amici di Dio, nn. 92-93)
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161 - Vi è già chi vi accusa: Mosè, nel quale riponete la vostra speranza
A sostegno della sua missione divina Gesù presenta quattro testimoni: il Battista, le proprie opere, il Padre, le Scritture. Anzitutto Gesù si appella alla testimonianza di Dio, espressa prima in un personaggio misterioso e senza nome (v. 32) e poi ripresa in seguito, in forma esplicita, con l'appellativo di Padre (vv. 37-38). Gesù fa appello alla testimonianza del Padre: essa è vera, forte, inoppugnabile, incontestabile.
L'uomo può ingannarsi nei suoi giudizi, Dio no. Il Battista ha reso testimonianza a Cristo che è la verità (Gv 14,6). Gesù non ha bisogno di una testimonianza umana; si è appellato alla testimonianza del Battista solo per favorire la salvezza dei suoi interlocutori. La testimonianza del Battista ha avuto lo scopo di favorire la fede di tutti, soprattutto dei giudei (Gv 1,7).
Il Battista ha preparato e favorito la rivelazione di Gesù a Israele (Gv 1,31). Le autorità religiose di Gerusalemme vollero essere illuminate dalla parola del Battista, e per tale ragione gli mandarono un'ambasceria (Gv 1,19ss). Ma purtroppo non accettarono la sua testimonianza; non vollero riconoscere Gesù come Messia e Figlio di Dio, nonostante la proclamazione chiara ed esplicita del Battista (Gv 1, 29 ss). Dopo aver citato in suo favore la testimonianza del Battista, Gesù ne porta una maggiore: le opere che compie. Tra esse occupa un posto di primo piano la risurrezione dei morti.
I giudei non hanno mai sperimentato la presenza visibile di Dio e non sono in comunione con lui, perché non credono nel suo inviato. L'esperienza di Dio si concretizza nella dimora della sua parola nel cuore dell'uomo. Dio ha reso e continua a rendere testimonianza al Figlio suo nel cuore di ogni uomo. Solo chi accoglie la parola di Dio in sé, accoglie la testimonianza del Padre. Dopo la testimonianza del Padre, Gesù si appella alla testimonianza delle Scritture. L'Antico Testamento deve fornire la fede in Gesù, perché parla di lui. "La legge era uno strumento di preparazione. Coloro che la capivano veramente, coloro che per mezzo di essa entravano nel disegno di Dio e vi corrispondevano meglio che potevano, erano guidati verso il termine voluto dal Padre, Gesù Cristo, nel quale solo è offerta la vita eterna" (Giblet).
I giudei che studiavano le Scritture avrebbero dovuto essere le persone più preparate ad accogliere Gesù. Ma purtroppo i giudei non vogliono credere in Gesù. A differenza dei giudei che ricevono gloria gli uni dagli altri, e perciò non possono credere, Gesù non riceve gloria dagli uomini, non cerca il loro plauso. L'amore dei giudei per la gloria umana è l'amore dell'uomo per la falsa grandezza. Gli avversari sono ostinati nella mancanza di fede perché amano più la gloria degli uomini che quella di Dio (cfr Gv 12,43).
Questi increduli ostinati avranno come accusatore il loro stesso profeta, Mosè, perché essi non credono neppure ai suoi scritti. I giudei che non credono in Gesù, non credono neppure in Mosè, non sono veri figli di Abramo, ma sono discendenti del diavolo (cfr Gv 8,39-44): la loro mancanza di fede smentisce la venerazione che dicono di avere verso questi padri del popolo eletto. Mosè ha scritto di Gesù: egli è il centro delle Scritture; la Legge e i Profeti parlano di lui (cfr Gv 1,45) e gli rendono testimonianza (Gv 5,39). I nemici di Gesù non credono agli scritti di Mosè: a maggior ragione non possono credere alle parole del Figlio di Dio. Rifiutando Cristo, i giudei dimostrano di non credere neppure in Mosè. Gesù accusa i giudei di non credere nella sua persona divina perché non cercano la gloria di Dio, ma la propria (Gv 5,44). La condotta dei giudei è un ammonimento anche per noi perché non ci serviamo della religione per il nostro prestigio o tornaconto umano. Lo zelo religioso può essere talvolta un'occulta sublimazione del nostro orgoglio: ci serviamo di Dio invece di servire Dio.
La Chiesa, come Cristo, non deve cercare la gloria umana: "Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza… La Chiesa non è costituita per cercare la gloria della terra, bensì a diffondere, anche col suo esempio, l'umiltà e l'abnegazione" (Costituzione dogmatica sulla Chiesa del Concilio Vaticano II, 8).
Padre Lino Pedron
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mercoledì 6 aprile 2011
160 - Curare le piccole cose
Pensando a quelli di voi che, mentre gli anni passano, ancora sognano — sogni vani, puerili, come quelli di Tartarino di Tarascona — di dar la caccia ai leoni nei corridoi di casa, dove al massimo si può trovare un topolino o poco altro; pensando a costoro, ripeto, vi ricordo che la grandezza consiste nel sostenere in modo divino il compimento fedele dei doveri abituali di ogni giorno, le lotte quotidiane che riempiono di gioia il Signore e che soltanto Lui e ciascuno di noi conosciamo. Convincetevi che, d'ordinario, non ci sarà posto per gesta abbaglianti, fra l'altro perché non ne avrete l'occasione. Invece, non vi mancano le occasioni per dimostrare nelle cose piccole, normali, il vostro amore a Cristo.(...) Pertanto, tu e io metteremo a frutto anche le occasioni più banali che ci si presentano, per santificarle, per santificarci e per santificare coloro che condividono i nostri stessi impegni quotidiani, sentendo nella nostra vita il peso dolce e attraente della corredenzione.(Amici di Dio, nn. 8-9)
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159 - Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi egli vuole
Ma Gesù disse loro: «Il Padre mio agisce anche ora e anch'io agisco». Per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo, perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio. Gesù riprese a parlare e disse loro: «In verità, in verità io vi dico: il Figlio da se stesso non può fare nulla, se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa allo stesso modo. Il Padre infatti ama il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa e gli manifesterà opere ancora più grandi di queste, perché voi ne siate meravigliati. Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi egli vuole. Il Padre infatti non giudica nessuno, ma ha dato ogni giudizio al Figlio, perché tutti onorino il Figlio come onorano il Padre. Chi non onora il Figlio, non onora il Padre che lo ha mandato. In verità, in verità io vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita. In verità, in verità io vi dico: viene l'ora - ed è questa - in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che l'avranno ascoltata, vivranno. Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso anche al Figlio di avere la vita in se stesso, gli ha dato il potere di giudicare, perché è Figlio dell'uomo. Non meravigliatevi di questo: viene l'ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e usciranno, quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna. Da me, io non posso fare nulla. Giudico secondo quello che ascolto e il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.
Per la tradizione rabbinica, solo Dio era dispensato dal riposo del sabato. Infatti, poiché l'uomo nasce e muore anche in giorno di sabato, Dio deve sempre dare la vita e giudicare. Egli, in questo giorno, non può rimanere inattivo, senza guidare la storia e il destino degli uomini, altrimenti il mondo avrebbe fine e sfuggirebbe al suo controllo. Questo è il senso della difesa che Gesù pronuncia davanti ai giudei: egli, come Figlio di Dio, ha gli stessi diritti divini del Padre. Va notato che il verbo operare è usato al presente e in senso assoluto sia per il Padre che per il Figlio, e indica uguaglianza e unica coordinazione nell'operare.
Circa la controversia sul sabato, dunque, Giovanni chiarisce che la discussione di Gesù non verte tanto sulla relatività della legge del riposo, ma sulla sua personale autorità, che è superiore all'osservanza del precetto. Egli intende far riscoprire il senso profondo e teologico del sabato, riproponendo il valore di Dio e della salvezza. Se Gesù opera in giorno di sabato è perché egli, che è Figlio di Dio, è in relazione col Padre e ne segue l'agire. Come il Padre è superiore al sabato e può lavorare anche in questo giorno, anzi può operare sempre, così Gesù, essendo uguale al Padre (v. 18), è padrone del sabato e può affermare: "Il Padre mio opera continuamente e anch'io opero" (v. 17). Per Gesù, dare la vita e la libertà interiore all'uomo, non è trasgredire il sabato, ma realizzarlo in pienezza secondo la volontà del Padre.
Gesù è il Figlio del Padre, l'inviato per la salvezza dell'uomo, colui che compie la stessa attività di Dio, incarnandone la volontà e il progetto. Essere con Gesù è essere con Dio. Agire contro Gesù è agire contro Dio.
Ascoltare la parola di Gesù e credere nel Padre sono due atteggiamenti religiosi che conducono l'uomo alla fede. Credere in Gesù e nel Padre vuol dire accettare il messaggio di Dio, il suo piano di salvezza per l'uomo; è possedere la vita eterna, perché per mezzo della parola del Figlio, l'uomo entra in comunione col Padre e, quindi, nella vita divina. La strada da seguire per giungere alla vita eterna è unica: dall'ascolto alla fede, e dalla fede alla vita.
Tutti gli uomini morti spiritualmente per il peccato sono in grado di udire la voce del Figlio di Dio, ma solo quelli che ascoltano, aprendosi alla dinamica della fede, possono entrare nella vita.
Oltre il potere di dare la vita, il Figlio dell'uomo ha nelle mani anche il potere del giudizio. Tutti, alla fine dei tempi, udranno la voce del giudice universale, e i morti, uscendo dalle loro tombe, riceveranno il premio o il castigo secondo le opere di bene o di male compiute. Coloro che avranno scelto il bene e l'amore, risorgeranno per la vita, coloro che avranno scelto il male e le tenebre, risorgeranno per la condanna. In questo giudizio Gesù avrà un solo criterio di valutazione: la volontà del Padre.
Padre Lino Pedron
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martedì 5 aprile 2011
158 - Santi non si nasce: il santo si forgia
Il primo requisito che ci viene chiesto — in piena conformità alla nostra natura — è l'amore:la carità è il vincolo della perfezione [Col 3, 4]; carità che dobbiamo mettere in pratica secondo i comandamenti esplicitamente stabiliti dal Signore: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente [Mt 22,37], senza riservare nulla per noi stessi. Questa è la santità. Senza dubbio è un obiettivo elevato e arduo. Ma non dimenticate che santi non si nasce: il santo si forgia nel continuo gioco della grazia divina e della corrispondenza umana. Tutto ciò che si sviluppa — scrive un autore cristiano dei primi secoli, riferendosi all'unione con Dio — agli inizi è piccolo. Alimentandosi gradualmente, con continui progressi, diventa grande [San Marco Eremita, De lege spirituali, 172]. Pertanto ti dico che, se vuoi comportarti da cristiano coerente — so che le disposizioni non ti mancano, anche se spesso ti costa vincere o slanciarti verso l'alto con il tuo povero corpo —, devi mettere una cura estrema nei particolari più minuti, perché la santità che il Signore esige da te si ottiene compiendo con amore di Dio il lavoro, i doveri di ogni giorno, che quasi sempre sono un tessuto di cose piccole.(Amici di Dio, nn 6 e 7)
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157 - All’istante quell’uomo guarì
Gesù per la seconda volta sale a Gerusalemme in occasione di una festa ebraica non precisata. L'ambiente dove si svolge il miracolo è presso la porta delle pecore, un luogo riservato agli agnelli destinati ai sacrifici del tempio. Una piscina con cinque portici, accoglieva costantemente sul suo bordo "un gran numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici" (v. 3). La piscina di Betzatà conserva resti di un culto pagano a divinità guaritrici. In questo luogo ci sono chiari segni di culto al Dio Asclepios-Serapis. L'attesa del moto dell'acqua ad opera di un angelo è forse il residuo di una leggenda popolare. Il movimento dell'acqua poteva essere il travaso da una vasca all'altra, o l'acqua che usciva a intermittenza dalla sorgente. L'angelo indicherebbe un incaricato al culto del Dio Asclepios. Anche in questo caso è Gesù che prende l'iniziativa. Egli è presentato come padrone della salute e può guarire dalle malattie anche più gravi. La sua parola è tanto potente da produrre immediatamente la guarigione. Cristo è il vero guaritore di tutto l'uomo. In particolare il prodigio mette in luce che Gesù è il Salvatore dei più deboli, dei più abbandonati e trascurati da tutti. Gesù guarendo di sabato imita la condotta del Padre, il quale opera continuamente, anche di sabato (Gv 5,17). Secondo Gesù "il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato! Perciò il Figlio dell'uomo è signore anche del sabato" (Mc 2,27-28). Egli contesta le tradizioni umane che sono in contrasto con la carità. Alcuni esegeti vedono nell'acqua della piscina di Betzatà un'allusione alla legge mosaica che non può guarire, in contrasto con le parole di Gesù che invece guariscono. Scrive Loisy: "L'acqua di Betzatà, come il battesimo di Giovanni, raffigura il regime della legge, e il caso del paralitico è destinato a mostrare che questo regime non porta alla salvezza. Vi è una paralisi inveterata che Gesù solo può guarire; egli solo infatti rigenera l'umanità con il dono della vita eterna". Altri esegeti scoprono nei cinque portici della piscina una raffigurazione dei cinque libri della legge mosaica, mentre l'infermo che da trentotto anni attende la guarigione sarebbe tipo di quanti cercano invano la salvezza nella legge. Scrive Braun: "La cifra di trentotto anni verosimilmente è simbolica. Vi è una buona ragione di accostarla ai trentotto anni durante i quali, secondo Dt 2,15, gli israeliti avevano errato nel deserto, prima di giungere alle frontiere della terra promessa". La guarigione dell'uomo infermo da trentotto anni, compiuta da Gesù, non è tanto un'opera di misericordia, quanto il manifestare l'opera di salvezza di Dio stesso, del Padre suo, attraverso la grazia del perdono e della salvezza.
Padre Lino Pedron
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lunedì 4 aprile 2011
156 - Va’, tuo figlio vive
Nel racconto del secondo segno di Cana il protagonista è un pagano. I giudei, i samaritani e i pagani erano le tre categorie che formavano l'umanità. Questi tre gruppi sono valutati in base alla loro fede in Gesù. I giudei non credono nel loro messia: Nicodemo con il suo scetticismo ne è il tipico rappresentante (Gv 3,1-12). Gli eretici samaritani invece accettano la testimonianza di una donna e soprattutto quella di Gesù, pur non avendo visto alcun prodigio (Gv 4,1-41). Il pagano crede alla parola di Gesù, ancor prima di vedere il segno (Gv 4,46-50).
La seconda visita di Gesù a Cana si riallaccia alla prima, in occasione delle nozze (Gv 2,1ss). I due miracoli di Cana costituiscono una grande inclusione di questa prima parte del vangelo di Giovanni. In essa Giovanni descrive la prima rivelazione di Gesù nelle tre principali regioni della Palestina: la Galilea, la Giudea e la Samaria, e alle tre categorie di persone che le abitavano: gli israeliti ortodossi, gli eretici samaritani e i pagani.
Dalla Samaria Gesù ritorna in Galilea perché non era stato accolto a Gerusalemme, nonostante avesse operato numerosi prodigi. Il funzionario regio di Cafàrnao era al servizio di Erode Antipa, il tetrarca della Galilea. Il viaggio da Cafàrnao a Cana è abbastanza disagiato: 26 chilometri in salita. Gesù richiama subito il centurione alla fede vera, fondata sulla sua parola e non sui segni. Come i samaritani, anche questo pagano crede prontamente alla parola di Gesù e diventa, in tal modo, modello di fede per i discepoli. Egli è tanto in ansia per la salute del figlio che non si preoccupa dell'ammonimento di Gesù, ma gli ripete con insistenza di scendere a Cafàrnao prima che suo figlio muoia.
In antitesi con i giudei che non credono alle parole di Gesù, questo pagano crede immediatamente.
Nell'apprendere che il figlio era guarito nell'ora nella quale Gesù gli aveva parlato, il funzionario credette, e con lui tutta la sua famiglia. Nelle scelte, anche importanti, della nostra vita non dobbiamo cercare dei segni per credere. La parola di Gesù può bastarci per le decisioni grandi e anche per le scelte quotidiane. Dio ci ha già detto tutto in Gesù. In caso di malattia cerchiamo ansiosamente medici, medicine, ospedali, interventi chirurgici. Gesù, Signore della vita e della morte, ha qualche significato e qualche peso nella nostra lotta contro il male e la morte?
Padre Lino Pedron
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155 - Fa' quello che devi e sta' in quello che fai
Vuoi davvero essere santo? —Compi il piccolo dovere d'ogni momento: fa' quello che devi e sta' in quello che fai. (Cammino, 815)
La santità “grande” consiste nel compiere i “doveri piccoli” di ogni istante. (Cammino, 817)
Mi dici: quando si presenterà l'occasione di fare qualcosa di grande..., allora! —Allora? Pretendi di farmi credere e di credere tu stesso, sul serio, che potrai vincere le Olimpiadi soprannaturali, senza la preparazione quotidiana, senza allenamento? (Cammino, 822)
Hai visto come hanno innalzato quell'edificio grandioso? —Un mattone, poi un altro. Migliaia. Ma a uno a uno. —E sacchi di cemento, a uno a uno. E blocchi squadrati, che contano ben poco rispetto alla mole dell'insieme. —E pezzi di ferro. — E operai che hanno lavorato giorno dopo giorno, le stesse ore... Hai visto come hanno innalzato quell'edificio grandioso?... — A forza di cose piccole! (Cammino, 823)
Hai mai osservato in quali “minuzie” si esprime l'amore umano? —Ebbene, anche l'Amore divino si esprime in “minuzie”. (Cammino, 824)
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domenica 3 aprile 2011
154 - Confessione Pasquale
1. Inginocchiati davanti alla Croce, dalla quale viene il perdono dei peccati e chiedi la grazia di una buona confessione.
2. Fai l'esame di coscienza a partire dall'ultima confessione, mettendo la tua vita a confronto dei dieci comandamenti e dei precetti evangelici.
3. Esprimi a Gesù il dolore per i tuoi peccati, con i quali hai offeso il suo amore e tradito la sua amicizia.
4. Fai il proposito di cambiare vita, incominciando ad eliminare i peccati più gravi.
5. Confessa i tuoi peccati con chiarezza e umiltà, confessando tutti quelli mortali e almeno alcuni di quelli veniali.
6. Accogli con gratitudine l'assoluzione del sacerdote, che ti dà il perdono di Gesù e la sua grazia.
7. Fai la penitenza che ti viene data e aggiungi anche qualcosa di tuo, in riparazione del male commesso. Non dimenticare di esprimere a Gesù la tua immensa gratitudine.
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153 - il cieco nato
La prima scena (vv. 1-5) si apre con un dialogo fra Gesù e i discepoli. Il loro intervento è chiaramente un artificio letterario, mediante il quale si offre a Gesù l’opportunità di dare la chiave di lettura dell’episodio. Se si riduce il brano a unreportage giornalistico, se non si coglie il simbolismo della guarigione del cieco nato, si perde il messaggio centrale: Gesù “è la luce del mondo” (vv. 4-5). La domanda dei discepoli è forse anche la nostra: “Come mai quest’uomo è nato cieco? Chi ha peccato: lui o i suoi genitori?” (v. 2). Al tempo di Gesù si riteneva che, nella sua infinita giustizia, Dio premiasse i buoni e punisse i malvagi già in questo mondo, in proporzione alle loro opere. Le disgrazie, le malattie, le sofferenze erano ritenute un castigo per i peccati. Questa teologia – dettata dalla logica e dai criteri umani – non è mai stata facile da difendere. Giobbe la irrideva: “I malvagi prosperano, invecchiano, anzi, sono potenti e gagliardi. La loro prole prospera insieme con loro… Finiscono nel benessere i loro giorni e muoiono tranquilli” (Gb 21,7-8.13) e a chi gli obiettava: “Dio serba per i loro figli il suo castigo”, rispondeva: “Ma la faccia pagare piuttosto a lui stesso, che sia lui a soffrire! Cosa glien’importa infatti della sua famiglia quando il numero dei suoi giorni è finito?” (Gb 21,19-21). Malgrado queste inconfutabili ragioni, la teologia della “giusta retribuzione” era accettata da tutti e, per spiegare la nascita di una persona disabile, si giungeva addirittura a supporre che avesse peccato nel grembo materno. La posizione che Gesù prende su questo argomento è chiara e illuminante: “Né il cieco, né il suoi genitori hanno peccato” (v. 3). È una bestemmia parlare di castighi di Dio, è un modo pagano di immaginarlo. Quando la Bibbia parla dei “castighi di Dio” impiega un linguaggio arcaico che non è più il nostro e con esso intende denunciare i disastri provocati dal peccato, non da Dio. Oggi è scorretto e deviante usare la metafora del “castigo di Dio”, senza chiarirne subito il significato. Di fronte al male non ha senso chiedersi di chi è la colpa, l’unica cosa da fare è impegnarsi per eliminarlo, come Gesù ha fatto. “È così – dice Gesù parlando del cieco – perché in lui possano manifestarsi le opere di Dio” (v. 3). Ogni evento è ambivalente. Siamo noi che abbiamo catalogato gli avvenimenti in buoni e cattivi, ma ognuno di loro può essere buono o cattivo. A seconda di come lo si vive, si tramuta in salvezza o segna una sconfitta. Il cieco non ha colpa di essere nato così. Qui fa la sua comparsa il simbolismo giovanneo: la cecità è la condizione nella quale l’uomo nasce. Non è colpa sua né degli altri. È cieco e non ha nemmeno l’idea di che cosa sia la luce, tanto è vero che non gli passa neppure per la mente di chiedere a Gesù di essere curato, è Gesù che prende l’iniziativa di guarirlo e, con il suo gesto, mostra che la sua salvezza (la sua luce) è un dono completamente gratuito. Dove c’è lui, c’è la luce, è giorno. Dove lui è assente, è notte fonda (v. 5).
Nella seconda scena (vv. 6-7) viene riferita, in modo estremamente sintetico, la guarigione del cieco. Il metodo impiegato ci risulta piuttosto strano: il fango, la saliva… Gesù si adegua alla mentalità della gente del suo tempo che riteneva la saliva un concentrato dell’alito, dello spirito, della forza di una persona. In questo gesto – compiuto altre volte da Gesù (Mc 7,33; 8,23) – c’è forse un riferimento alla creazione dell’uomo raccontata nel libro della Genesi (Gn 2,7). L’evangelista vorrebbe cioè insinuare l’idea che dall’alito, dallo Spirito di Gesù nasce l’uomo nuovo, illuminato. Il cieco non ricupera immediatamente la vista, deve andare a lavarsi all’acqua di Siloe e Giovanni rileva che questo nome significa Inviato. Il riferimento a Gesù – l’inviato del Padre – è esplicito: è la sua acqua, quella promessa alla samaritana, che cura la cecità dell’uomo.
La terza scena introduce il primo degli interrogatori fatti al cieco (vv. 8-12). Illuminato da Gesù, è divenuto irriconoscibile, è cambiato completamente, tanto che i vicini, che per anni gli sono vissuti accanto, si chiedono: “Ma è lui o non è lui?”. È l’immagine dell’uomo che, dal giorno in cui è divenuto discepolo, si è trasformato a tal punto da non sembrare più la stessa persona. Prima conduceva una vita corrotta, era intrattabile, egoista, avido, burbero, ora non più, è cambiato il suo modo di ragionare, di parlare, di giudicare, di valutare persone e avvenimenti, di affrontare i problemi, di reagire alle provocazioni. L’acqua che è la parola di Cristo gli ha aperto gli occhi, gli ha fatto scoprire com’era priva di senso la vita che conduceva. Ha creato un uomo nuovo, illuminato. Il cammino del discepolo verso la luce piena è però lungo e faticoso. L’evangelista lo presenta con l’immagine del cieco che comincia il suo percorso nel momento in cui incontra l’uomo Gesù. “Quell’uomo che si chiama Gesù – dice – ha fatto del fango” e a chi gli chiede: “Dov’è questo tale?”, risponde: “Non lo so”. Confessa la propria ignoranza, riconosce di non sapere ancora nulla di lui. Il punto di partenza del cammino spirituale del discepolo è la presa di coscienza di non conoscere Cristo e di sentire il bisogno di sapere qualcosa di più.
Nella quarta scena (vv. 13-17) intervengono le autorità religiose che sottopongono il cieco a un secondo interrogatorio. Non si preoccupano di verificare ciò che è accaduto. Hanno già deciso che devono condannare Gesù perché non corrisponde all’idea di uomo religioso che hanno in mente. Arrogandosi il diritto di parlare in nome di Dio, lo classificano fra i malvagi, fra i nemici del Signore in base a norme e a criteri da loro stabiliti. Questa convinzione di essere nel giusto e di non aver bisogno di altra luce, il rifiuto di rimettere in causa le proprie certezze teologiche, li porta ad affermare altezzosi: “Noi sappiamo che quest’uomo non viene da Dio…” (v. 16). Sono ciechi, convinti di vederci. La posizione assunta da questi farisei è un richiamo al pericolo che corre chiunque inizia a conoscere Cristo. Se rimane aggrappato alle proprie sicurezze e alle proprie convinzioni, se rifiuta caparbiamente ogni cambiamento, rimarrà schiavo della tenebra. Il cieco, che è cosciente di “non sapere”, muove invece un secondo passo. Ai farisei che gli chiedono: “Tu cosa dici di lui?”, risponde: “È un profeta” (v. 17). Prima pensava che fosse un semplice uomo, ora ha capito che è qualcosa di più, che è un gradino sopra: è un profeta.
La quinta scena (vv. 18-23) racconta un nuovo interrogatorio. Questa volta le autorità chiamano in causa i genitori del cieco. Detengono il potere e non possono tollerare che qualcuno metta in causa le loro convinzioni e il loro prestigio. Chi osa opporsi deve essere tolto di mezzo. Sono così potenti che perfino i genitori hanno paura di prendere posizione in favore del figlio. È la storia di chiunque viene illuminato da Cristo: non è più capito, viene abbandonato e a volte anche tradito dalle persone più care, da coloro da cui si sarebbe aspettato un incoraggiamento e un appoggio. È sempre difficile e rischioso schierarsi dalla parte della verità: la paura di alienarsi l’amicizia della gente che conta o le simpatie di chi detiene il potere, induce spesso a omettere di intervenire quando si dovrebbe, provoca reticenze e silenzi colpevoli.
Nella sesta scena (vv. 24-34) le autorità religiose chiamano di nuovo in causa il cieco. Nelle sue risposte, nel suo atteggiamento si possono cogliere le caratteristiche che contraddistinguono chi è illuminato da Cristo. - È anzitutto libero: non vende la propria testa a nessuno, dice quello che pensa. “È un profeta” – afferma, riferendosi a Gesù – e quando gli obiettano: “Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore”, si permette addirittura di fare dell’ironia: “Se sia un peccatore non lo so; una cosa so: che prima ero cieco e ora ci vedo” e, subito dopo, ancor più graffiante, soggiunge: “È davvero strano che voi non sappiate di dove sia…”. - È coraggioso:rifiuta ogni forma di servilismo, non si lascia intimidire da coloro che, abusando del loro potere, insultano, minacciano, ricorrono alla violenza (vv. 24ss.). - È sincero: non rinuncia a dire la verità anche quando questa è scomoda o sgradita a chi sta in alto, a chi è abituato a ricevere solo approvazioni e applausi dagli adulatori. - È semplice come una colomba, ma anche prudente. Le autorità tentano di intrappolarlo, costringendolo ad ammettere che si è schierato dalla parte di chi “non osserva il sabato”, ma egli, con abilità, si sottrae alla trappola: “Ve l’ho già detto, perché volete udirlo di nuovo?” e assesta una nuova stoccata ironica: “Non è che per caso volete diventare suoi discepoli?” (v. 27). - Si mantiene in un costante atteggiamento di ricerca: sa di avere intravisto qualcosa, di aver colto una parte della verità, ma è cosciente che molte cose ancora gli sfuggono. Le autorità sono invece convinte di vedere già chiaro, pensano di sapere tutto: “Noi sappiamo che quest’uomo non viene da Dio” (v. 16); “noi sappiamo che è un peccatore” (v. 24); “noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio” (v. 29). Colui che era cieco ha invece sempre riconosciuto il proprio limite: “Di dove sia quest’uomo, non lo so” (v. 12); “se sia un peccatore, non lo so” (v. 25). Quando Gesù gli chiederà se crede nel Figlio dell’uomo, egli risponderà: “Chi è?”, riconoscendo, ancora una volta, la propria ignoranza (v. 36). - Infine resiste alle pressioni e alla paura. Subisce violenza, ma non rinuncia alla luce ricevuta. Piuttosto che andare contro coscienza, preferisce essere cacciato fuori dell’istituzione (v. 34).
Nell’ultima scena (vv. 35-41) ricompare Gesù. Tutto si è svolto come se egli non esistesse. Non è più intervenuto, ha lasciato che il cieco si destreggiasse da solo in mezzo alle difficoltà e ai conflitti. Il discepolo illuminato non ha bisogno della presenza fisica del Maestro, gli basta la forza della sua luce per mantenersi saldo nella fede e fare scelte coerenti. Alla fine Gesù interviene e pronuncia la sua sentenza, l’unica che conta quando si tratta di decidere sulla riuscita o sul fallimento della vita di uomo. Dice: all’inizio c’era un uomo cieco e molti che ci vedevano; ora la situazione è capovolta, coloro che erano convinti di vedere, in realtà sono ciechi incurabili; invece colui che era cosciente della propria cecità, ora ci vede. Si noti come è stato chiamato Gesù lungo il racconto: per le autorità – per i “vedenti” – egli è “quel tale”, “quell’uomo”, “costui”; i capi non si degnano nemmeno di chiamarlo per nome; hanno occhi, ma non vogliono vedere chi egli sia. Il cieco fa un percorso di fede che corrisponde a quello di ogni discepolo: all’inizio Gesù è per lui un semplice “uomo” (v. 11); poi diviene un “profeta” (v. 17); in seguito è un “uomo di Dio” (v. 32-33); alla fine è il “Signore” (v. 38). Quest’ultimo titolo è il più importante, è quello con cui i cristiani proclamavano la loro fede. Prima di venire immerso nell’acqua del photistérion, durante la solenne cerimonia della notte di Pasqua, ogni catecumeno dichiarava, davanti a tutta comunità: “Credo che Gesù è il Signore”. Da quel momento era accolto fra “gli illuminati”.
Fernando Armellini (biblista)
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152 - Che la tua vita non sia una vita sterile
Se lasci che la tentazione ti faccia dire: «Chi me lo fa fare?», dovrei risponderti: «Te lo comanda — te lo chiede — Cristo stesso». La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della messe che mandi gli operai nella sua messe! [Mt 9, 37-38]. Non concludere egoisticamente: «Non sono fatto per queste cose, c'è già chi ci pensa; mi sentirei un estraneo». No, non c'è chi ci pensa: quello che dici, potrebbero dirlo anche tutti gli altri. L'appello di Cristo è rivolto a tutti e singoli i cristiani. Nessuno è dispensato: né per ragioni di età, né di salute, né di attività. Non ci sono scuse. O diamo frutti di apostolato, o la nostra fede è sterile. D'altronde, chi ha detto che per parlare di Cristo, per diffondere la sua dottrina, sia necessario fare cose speciali e strane? Vivi la tua vita ordinaria, lavora dove già sei, adempi i doveri del tuo stato, e compi fino in fondo gli obblighi corrispondenti alla tua professione o al tuo mestiere, maturando, migliorando ogni giorno. Sii leale, comprensivo con gli altri, esigente verso te stesso. Sii mortificato e allegro. Sarà questo il tuo apostolato. E senza che tu ne comprenda il perché, data la tua pochezza, le persone del tuo ambiente ti cercheranno e converseranno con te in modo naturale, semplice — all'uscita dal lavoro, in una riunione di famiglia, nell'autobus, passeggiando, o non importa dove —: parlerete delle inquietudini che si trovano nel cuore di tutti, anche se a volte alcuni non vogliono rendersene conto. Le capiranno meglio quando cominceranno a cercare Dio davvero.(Amici di Dio, 272-273)
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sabato 2 aprile 2011
151 - Messaggio Medjugorje 2/4/2011 a Mirjana

«Cari figli, con amore materno desidero aprire il cuore di ciascuno di voi ed insegnarvi l’unione personale con il Padre.
Per accettare questo dovete comprendere che siete importanti per Dio e che Egli vi chiama singolarmente.
Dovete comprendere che la vostra preghiera è il dialogo di un figlio con il Padre, che è l’amore la via per la quale dovete incamminarvi, l’amore verso Dio e verso il vostro prossimo.
Questo è, figli miei, un amore che non ha confini, è un amore che nasce nella verità e va fino in fondo. Seguitemi, figli miei, affinché anche gli altri, riconoscendo la verità e l’amore in voi, vi seguano. Vi ringrazio!».
La Madonna ha invitato ancora una volta alla preghiera per i nostri pastori.
Ha detto: «Essi hanno un posto particolare nel mio Cuore, essi rappresentano mio Figlio».
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150 - Desidero che anche per voi la vostra croce diventi gioia
Sublimi parole celesti quelle di Maria riferite ai sofferenti nel corpo e nello spirito, Ella ci esorta alla preghiera perseverante fatta con il cuore e con la fiamma dell'Amore di Cristo Gesù che è radicata dentro di noi. La sofferenza, donata a Gesù diventa salvezza di anime. La preghiera innalzata per l' ammalato se recitata con il cuore e non con la mente può donare la consolazione e la pace ed in alcuni casi la totale guarigione sia corporale che spirituale.
Il nostro Salvatore è venuto al mondo si è donato e ha sacrificato la Sua vita con la morte straziante della Croce per la nostra salvezza e anche noi dobbiamo percorrere la via Crucis e dobbiamo donarci totalmente al Cuore di Gesù per poter aiutare tutti quelli che non credono, non sperano, non amano. Il mondo è un gran "orto degli ulivi" dove un esercito di sofferenti innalza il grido di aiuto per poter ottenere la grazia della sopportazione e guarigione delle loro anime. E noi tutti popolo in cammino, percorriamo con chi è nella sofferenza la strada della Croce che Gesù ha percorso con sangue e sudore accompagnato dalla Sua dolcissima Mamma che per prima ha seguito il cammino doloroso.
Oggi Maria segue il nostro cammino doloroso in compagnia di Gesù e con loro al nostro fianco la Croce diventa gioia.
Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di noi...
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149 - Devi essere fermento
Una grande moltitudine aveva accompagnato Gesù. Il Signore solleva gli occhi e domanda a Filippo: «Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare? » [Gv 6, 5]. Dopo un rapido calcolo Filippo risponde: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Non hanno tanto denaro, devono ricorrere a una soluzione famigliare. Gli disse allora uno dei discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C'è qui un ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci; ma cos'è questo per tanta gente?» [Gv 6, 8-9]. Noi vogliamo seguire il Signore e desideriamo diffondere la sua Parola. Umanamente parlando, è logico che ci chiediamo anche noi: che cosa siamo per tanta gente? A confronto col numero degli abitanti della terra, pur contandoci a milioni, siamo pochi. Perciò dobbiamo considerarci come un po' di lievito preparato e disposto per portare il bene all'umanità intera, ricordando le parole dell'Apostolo: Un po' di lievito fa fermentare tutta la pasta [1 Cor 5, 6], la trasforma. Abbiamo bisogno di imparare a essere noi il fermento, il lievito che modifica e trasforma la moltitudine. Se meditiamo con criterio spirituale quel testo di san Paolo, comprenderemo di non avere altra scelta che di lavorare al servizio di tutte le anime.
Fare diversamente sarebbe egoismo.
Se consideriamo con umiltà la nostra vita, vedremo chiaramente che il Signore, oltre alla grazia della fede, ci ha concesso dei talenti, delle qualità. Nessuno di noi è un esemplare ripetuto in serie: Dio nostro Padre ci ha creati a uno a uno, distribuendo tra i suoi figli un diverso numero di beni. Dobbiamo mettere quei talenti, quelle qualità, al servizio di tutti, utilizzando i doni di Dio come strumenti per aiutare gli altri a scoprire Cristo. (Amici di Dio, nn. 256-258)
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148 - Atto di riparazione per i peccati del mondo
Memori però che noi pure altre volte ci macchiammo di tanta indegnità, e provandone vivissimo dolore, imploriamo anzitutto per noi la tua misericordia, pronti a riparare con volontaria espiazione, non solo i peccati commessi da noi, ma anche quelli di coloro che, errando lontano dalla via della salute, ricusano di seguire te come pastore e guida, ostinandosi nella loro infedeltà, o calpestando le promesse del battesimo, hanno scosso il soavissimo giogo della tua legge.
E mentre intendiamo espiare tutto il cumulo di sì deplorevoli delitti, ci proponiamo di ripararli ciascuno in particolare: l'immodestia e le brutture della vita e dell'abbigliamento, le tante insidie tese dalla corruttela alle anime innocenti, la profanazione dei giorni festivi, le ingiurie esecrande scagliate contro te e i tuoi santi, gli insulti lanciati contro il tuo Vicario e l'ordine sacerdotale, le negligenze e gli orribili sacrilegi onde è profanato lo stesso sacramento dell'amore divino, e infine le colpe pubbliche delle nazioni che osteggiano i diritti e il magistero della Chiesa da te fondata.
Ed oh potessimo noi lavare col nostro sangue questi affronti! Intanto come riparazione dell'onore divino conculcato, noi ti presentiamo, accompagnandola con le espiazioni della Vergine tua madre, di tutti i santi e delle anime pie, quella soddisfazione che tu stesso un giorno offristi sulla croce al Padre e che ogni giorno rinnovi sugli altari, promettendo con tutto il cuore di voler riparare, per quanto sarà in noi e con l'aiuto della tua grazia, i peccati commessi da noi e dagli altri e l'indifferenza verso sì grande amore con la fermezza della fede, l'innocenza della vita, l'osservanza perfetta della legge evangelica, specialmente della carità, e di impedire inoltre con tutte le nostre forze le ingiurie contro di te, e di attrarre quanti più potremo alla tua sequela. Accogli, te ne preghiamo, o benignissimo Gesù, per l'intercessione della beata Vergine Maria riparatrice, questo volontario ossequio di riparazione, e conservaci fedelissimi nella tua obbedienza e nel tuo servizio fino alla morte con il gran dono della perseveranza, mediante il quale possiamo tutti un giorno pervenire a quella patria, dove tu col Padre e con lo Spirito Santo vivi e regni Dio per tutti i secoli dei secoli.
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147 - Preghiera al Cuore Imacolato di Maria

O Cuore immacolato di Maria, pieno di bontà, mostra il Tuo amore verso di noi. La fiamma del Tuo Cuore, o Maria, scenda su tutti gli uomini. Noi Ti amiamo immensamente. Imprimi nei nostri cuori il vero amore, così che abbiamo un desiderio continuo verso di Te. O Maria, di soave e umile cuore, ricordati di noi quando siamo nel peccato, Tu sai che tutti gli uomini peccano. Donaci, per mezzo del Tuo Immacolato e Materno Cuore, di essere guariti da ogni malattia spirituale. Fà che sempre possiamo guardare la bontà del Tuo Cuore Materno e che ci convertiamo per mezzo della fiamma del Tuo Cuore.
Amen
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venerdì 1 aprile 2011
146 - Preghiera a Gesù

145 - Se qualcuno non lotta..
La tradizione della Chiesa ha sempre considerato i cristiani come milites Christi, soldati di Cristo. Soldati che portano agli altri la serenità mentre combattono costantemente le proprie cattive inclinazioni. Sovente, per scarso senso soprannaturale, per mancanza di fede pratica, non si vuol capire nulla della vita presente concepita come milizia. Si insinua maliziosamente che, considerandoci milites Christi, corriamo il pericolo di servirci della fede per fini temporali di sopraffazione e di parte. Questo modo di pensare è una deprecabile e irragionevole semplificazione che va di pari passo con la comodità e la viltà. Non c'è niente di più estraneo alla fede cristiana del fanatismo con cui vengono proposti strani connubi tra il profano e lo spirituale, qualunque ne sia il colore. Tale pericolo non esiste se per lotta si intende quello che Cristo ci ha insegnato, e cioè la guerra che ognuno deve combattere contro se stesso, lo sforzo sempre rinnovato di amare di più Dio, di respingere l'egoismo, di servire tutti gli uomini. Rinunciare a questa impresa, sotto qualunque pretesto, significa darsi per vinti anzitempo, restare annientati e senza fede, con l'anima abbattuta e dispersa in compiacenze meschine. Per il cristiano, combattere la propria battaglia al cospetto di Dio e di tutti i fratelli nella fede, è la necessaria conseguenza della sua condizione. Se pertanto qualcuno non lotta, tradisce Gesù Cristo e il suo Corpo Mistico, che è la Chiesa. (E' Gesù che passa, 74)
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144 - Il Signore cerca il mio povero cuore
Assaporando nel vostro intimo l'infinita bontà di Dio, pensate che Cristo, alle parole della Consacrazione, si fa realmente presente nell'Ostia, in Corpo, Sangue, Anima e Divinità. Adoratelo con riverenza e devozione; rinnovate in sua presenza l'offerta sincera del vostro amore; ditegli senza timore che lo amate, rendetegli grazie per questa prova quotidiana della sua amabile misericordia, e crescete nel desiderio di avvicinarvi con fiducia alla Comunione. Io mi commuovo dinanzi a questo mistero d'Amore: il Signore cerca il mio povero cuore per farne il suo trono, per non abbandonarmi, a condizione che io non mi allontani da Lui. Ricreàti dalla presenza di Cristo, rifocillati dal suo Corpo, sapremo essere fedeli in questa vita terrena per chiamarci poi vincitori nel Cielo, accanto a Gesù e a Maria sua Madre. Dov'è, o morte, la tua vittoria? Dov'è, o morte, il tuo pungiglione? Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. (E' gesù che passa, 161)
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