Lc 5,33-39
Allora gli dissero: «I discepoli di Giovanni digiunano spesso e fanno preghiere, così pure i
discepoli dei farisei; i tuoi invece mangiano e bevono!». Gesù rispose loro: «Potete forse far
digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro? Ma verranno giorni quando lo sposo
sarà loro tolto: allora in quei giorni digiuneranno». Diceva loro anche una parabola: «Nessuno strappa un pezzo da un vestito nuovo per metterlo su un vestito vecchio; altrimenti il nuovo lo strappa e al vecchio non si adatta il pezzo preso
dal nuovo. E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo spaccherà gli otri, si spanderà e gli otri andranno perduti. Il vino nuovo bisogna versarlo in otri nuovi. Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: «Il vecchio è gradevole!»».
È utile spiegare il significato del digiuno e della supplica. Come il cibo è vita, così il digiuno è privazione di vita,
cioè morte. Esso è una pratica religiosa indispensabile per prendere coscienza della propria realtà di creatura e del
proprio limite: l’uomo non ha la vita in proprio, ma la riceve da Dio come dono.
Questo è il fondamento di un rapporto corretto con Dio, con sé stessi, con gli altri e con le cose. È il gesto più alto di libertà della creatura, che consiste nel riconoscere la propria verità senza mentire.
Così anche la supplica, che è la forma primordiale della preghiera, è sempre invocazione di qualcosa che non si
possiede e di cui si ha bisogno. Essa esprime con lo spirito la fame e la sete di Dio che il corpo manifesta attraverso il digiuno.
Nel Vangelo questi due aspetti fondamentali dell’uomo vengono superati: al digiuno subentra il banchetto, alla
supplica lamentosa la danza della gioia nuziale. I cristiani sostituiscono ogni pratica religiosa con il mangiare e il
bere, cioè con l’Eucaristia. Invece di digiunare e di supplicare, mangiano e bevono.
Gesù dice il motivo di questa sazietà ed ebbrezza di vita concessa ai discepoli. Essi stanno partecipando al
banchetto di nozze tra Dio e l’uomo. In Gesù l’umanità, che è la sposa, consuma le nozze con lo sposo, che è Dio.
Le nozze sono uno dei simboli preferiti dell’Antico Testamento per esprimere il significato profondo del rapporto
tra l’uomo e Dio che gli ha dato come primo comandamento: «Ascoltami!… Amami!» (Dt 6,4-5).
Questa immagine ci permette di conoscere chi sia Dio per l’uomo e l’uomo per Dio. Dio è passione per l’uomo,
lo ama e cerca di unirsi a lui. L’amore porta ad unirsi, a fondersi e a identificarsi con la persona amata.
Così Dio, in Gesù si unisce, si fonde, si identifica con l’uomo, perché ogni uomo possa, a sua volta, amare Dio
«con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze (Dt 6,5) e identificarsi con Dio in Cristo.
La natura vera dell’uomo può essere capita solo se si considera la passione che Dio ha per lui, come quella di
uno sposo per la sua sposa (Ef 5,32). È questo amore di Dio che dà all’uomo la sua essenza, la sua esistenza e la
sua smisurata dignità.
Solo ponendo il suo capo sul cuore di Dio, l’uomo è appagato in ogni suo più profondo desiderio.
L’uomo è sé
stesso solo nel suo rapporto con Dio.
Dio è qui e si è unito all’uomo.
La parabola dei vv. 36-39 ci insegna che il vestito nuovo dell’uomo è Cristo risorto (Gal 3,27). Per il battezzato è
indispensabile prendere coscienza di questa novità di vita, per non fare operazioni inutili e dannose come strappare una pezza dal vestito nuovo per cucirla su quello vecchio.
Fuori metafora: non si può continuare a vestire l’uomo
vecchio rattoppandolo con qualche novità evangelica. Ciò che è vecchio va buttato: «Dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici, e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio, nella giustizia e nella santità vera» (Ef 4,22ss).
Gli otri nuovi sono gli uomini nuovi che contengono il vino nuovo che è lo Spirito Santo. Il vino migliore è proprio
quello nuovo, offerto generosamente dal Cristo (Gv 2,10).
È un invito a superare la falsa sapienza dell’ovvio, del ripetitivo, che è sempre rivolta al passato, e ad avere il
coraggio del nuovo che è ignoto.
Padre Lino Pedron
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