Dal Vangelo secondo Matteo (11,25-30)
In quel tempo Gesù disse: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare. Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero”.
All’inizio della sua vita pubblica, lungo il lago di Galilea, Gesù ha suscitato parecchi entusiasmi e ha avuto un notevole successo; presto però sono cominciati i conflitti, le incomprensioni e le ostilità. Molti discepoli, sconcertati dalle sue proposte, si sono scoraggiati e lo hanno abbandonato (Gv 6,66). Persino i suoi familiari si sono sempre mostrati piuttosto diffidenti (Gv 7,5). Con lui è rimasto soltanto un gruppo sparuto di discepoli appartenenti alle classi più povere e disprezzate della società giudaica (Gv 6,67-69).
Il nostro brano costituisce l’epilogo di un capitolo carico di tensioni e polemiche. Si è aperto con la crisi di fede del Battista che ha inviato alcuni discepoli a chiedere a Gesù: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettarne un altro?” (Mt 11,3); è continuato con il pesante giudizio di Gesù sulla sua generazione (Mt 11,16-19) e con le minacce: “Guai a te, Corazin! Guai a te, Betsàida” (Mt 11,21-24).
A metà della vita pubblica il bilancio non poteva che essere considerato deludente. Di fronte a un simile fallimento noi avremmo lasciato cadere le braccia, Gesù invece si rallegra e benedice il Padre per quanto è accaduto.
L’esclamazione solenne con cui inizia il vangelo di oggi è una delle poche preghiere di Gesù riportate dai vangeli: “Ti benedico Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti ed agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (v. 25).
I sapienti e gli intelligenti sono spesso citati insieme nella Bibbia e, molte volte, in senso peggiorativo. Sono coloro che si professano ricercatori devoti della sapienza, che pensano addirittura di averne il monopolio, mentre in realtà si arrovellano in stoltezze e si dilettano con vane disquisizioni. Contro di loro il profeta Isaia aveva sentenziato: “Guai a coloro che si credono sapienti e si reputano intelligenti” (Is 5,20-21). Gesù non li dichiara esclusi dalla salvezza, si limita a constatare un fatto: i poveri, gli umili, le persone emarginate hanno accolto per primi la sua parola di liberazione. È normale – dice – che questo accada perché sono i piccoli che, più d’ogni altro, sentono il bisogno delle tenerezze di Dio, hanno fame e sete della giustizia, piangono, vivono nel lutto e attendono che il Signore intervenga per sollevare il loro capo e colmarli di gioia. Sono beati perché per loro è giunto il regno di Dio. Poi aggiunge: questo fatto rientra nel progetto del Padre: “Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te” (v. 26).
È profondamente radicata la convinzione che Dio sia amico solo dei buoni e dei giusti, che prediliga chi si comporta bene e sopporti a fatica chi pecca. Questo è il Dio creato dai “saggi” e dagli “intelligenti”, è il prodotto della logica e dei criteri umani. Il Padre di Gesù invece va a riprendersi coloro che noi gettiamo nella spazzatura, predilige chi è disprezzato, chi non è considerato da nessuno, i peccatori pubblici (Mt 11,19) e le prostitute (Mt 21,31) perché sono i più bisognosi del suo amore. I ricchi, i sazi, chi è orgoglioso del proprio sapere non sentono il bisogno di questo Padre, si tengono stretto il loro Dio. Giungeranno anch’essi alla salvezza, certo, ma solo quando si saranno fatti “piccoli”. Il guaio per loro è quello di arrivare in ritardo, di perdere tempo prezioso.
Nella seconda parte del brano (v. 27) viene introdotta un’importante affermazione di Gesù: “Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, come nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare”.
Il verbo conoscere nella Bibbia non significa aver incontrato o contattato alcune volte una persona, vuol dire “avere avuto di lei un’esperienza profonda”. Viene impiegato, per esempio, per indicare il rapporto intimo che intercorre fra marito e moglie (cf. Lc 1,34).
Una conoscenza piena del Padre è possibile solo al Figlio. Tuttavia, egli può comunicare questa sua esperienza a chi vuole. Chi avrà la disposizione giusta per accogliere la sua rivelazione?I piccoli, naturalmente.
Gli scribi, i rabbini, coloro che sono istruiti fin nei minimi dettagli della legge sono convinti di possedere la piena conoscenza di Dio, ritengono di saper discernere ciò che è bene, si presentano come guide dei ciechi, come luce di coloro che sono nelle tenebre, come educatori degli ignoranti, come maestri dei semplici (Rm 2,18-20); costoro, finché non rinunceranno al loro atteggiamento di “saggi” e “intelligenti”, si precluderanno la vera e gratificante esperienza dell’amore di Dio.
L’ultima parte del brano (vv. 28-30) si riferisce all’oppressione che i “piccoli”, il popolo semplice della terra, i poveri subiscono da parte dei “saggi e intelligenti”. Questi (gli scribi e i farisei) hanno strutturato una religione complicatissima, fatta di regole minuziose, di prescrizioni impossibili da osservare, hanno caricato sulle spalle della gente ignorante “pesi insopportabili che essi non toccano nemmeno con un dito” (Lc 11,46).
La legge di Dio è sì un giogo e il saggio Siracide raccomandava al figlio: “Introduci i tuoi piedi nei suoi ceppi, il collo nella sua catena; piega la tua spalla e portala… alla fine troverai in lei il riposo” (Sir 6,24-28), ma la religione predicata dai maestri d’Israele l’ha trasformata in un giogo opprimente. Per causa sua i poveri non si sentono solo disgraziati in questo mondo, ma anche rigettati da Dio ed esclusi dal mondo futuro. Sanno di non essere capaci di osservare le disposizioni dettate dai rabbini e per questo si sono convinti di essere impuri. “Questa gente che non conosce la legge è maledetta”, dichiarava il sommo sacerdote Caifa (Gv 7,49).
A questi poveri, smarriti e disorientati, Gesù rivolge l’invito a liberarsi dalla paura e dalla religione angosciante che è stata inculcata in loro. Accogliete – raccomanda – la mia legge, quella nuova che si riassume in un unico comandamento: l’amore al fratello. Non propone una morale più facile e permissiva, ma un’etica che punta diritta all’essenziale e non fa sprecare energie nell’osservanza di prescrizioni “che hanno una parvenza di sapienza”, ma che in realtà non hanno alcun valore (Col 2,23).
Il suo giogo è dolce. Anzitutto perché è il suo: non nel senso che è stato lui ad imporlo, ma perché è lui ad averlo portato per primo. È alla volontà del Padre che Gesù si è sempre inchinato; l’ha liberamente abbracciata, mentre non si è mai lasciato imporre precetti umani (Mc 7). Il suo giogo è dolce perché solo chi accoglie la sapienza delle beatitudini può sperimentare la gioia e la pace.
Infine l’invito: “Imparate da me che sono mite ed umile di cuore!” (v. 29). Forse questa affermazione ci lascia un po’ perplessi perché sembra un’autocelebrazione, meritata, certo, ma poco opportuna.
Queste parole sono tutt’altro che una vanteria!
“Imparate da me” significa semplicemente: non seguite i maestri che la fanno da padroni sulle vostre coscienze, che predicano un Dio che non sta dalla parte dei poveri, dei peccatori, degli ultimi e insegnano una religione che toglie la gioia con le sue pignolerie e assurdità.
Gesù si presenta come mite ed umile di cuore. Sono i termini che troviamo nelle beatitudini e che non indicano i timidi, i mansueti, i tranquilli, ma coloro che sono poveri e oppressi, coloro che, pur subendo ingiustizie, non ricorrono alla violenza.
A tutti questi poveri della terra Gesù dice: io sto dalla vostra parte, sono uno di voi, anch’io sono povero e rifiutato!
Il brano del vangelo di oggi è motivo di riflessione sia personale che comunitaria. Qual è il Dio in cui crediamo: è quello dei “sapienti” o quello rivelatoci da Gesù? Per chi è segno di speranza la nostra comunità: per chi è convinto di meritare i primi posti o per chi si sente indegno di varcare la soglia della chiesa?
Fernando Armellini (biblista)
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