Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi. Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti. Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che vi entrano. Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano!
Il comando del v. 6 è rivolto a tutti coloro che annunciano la parola di Dio. I discepoli devono avere sempre presenti queste due cose: il dovere di predicare il vangelo e il dovere di non esporre alla profanazione la parola di Dio. I cani e i porci sono gli ignoranti, gli empi, i pagani. Le cose sante e le perle sono l’annuncio del regno di Dio. Il vangelo va annunciato a tutti, ma va anche difeso da coloro che lo rifiutano e lo deridono. Nel discorso missionario Gesù dirà ai suoi inviati: «Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe: Guardatevi dagli uomini perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe… Quando vi perseguiteranno in una città, fuggite in un’altra» (Mt 10,16-23).
Il significato di questo testo è evidente, ma le immagini usate non sono chiare. Le cose sacre (to haghion) sono i doni sacri, le carni dei sacrifici, i pani dell’offerta, ecc. (cfr. J. Jeremias, Matteo 7,6a, in Abraham unser Vater, Fest.
O.Michel, Leidel-Koeln 1963, pp. 271-275 ). Non si comprende perciò come queste cose provochino la reazione rabbiosa dei cani, quando vengono poste loro davanti. Ugualmente difficile è spiegare le perle date ai porci al posto del cibo. Sarebbe stato più logico parlare anche nella seconda parte di alimenti o anche nella prima di ornamenti. È probabile che alla base di queste incongruenze ci sia un’errata traduzione dell’originale aramaico. Il termine corrispondente a «ciò che è santo» (qadissah) ha le stesse consonanti di qedasha (anello, orecchino, pendente). Dato che le parole si scrivevano senza vocali, una parola poteva essere letta per l’altra. Anzi, è probabile che lo stesso vocabolo qadissah avesse il duplice significato di cosa sacra e di perla (cfr. E. Zolli in Il Nazareno, pp. 135-
147; G. M. Castellini, Struttura Letteraria di Matteo 7,6, in RivBibl 2 (1954), 310-317). Se questa ipotesi di traduzionefosse vera, il consiglio di Gesù sarebbe quello di non legare catenine preziose al collo dei cani affinché, nell’inutile tentativo di raggiungerle per levarsele di dosso, non si rivoltino contro coloro che ve le hanno appese. Nella seconda parte si presenta un fatto ugualmente sorprendente. Chi getta le perle davanti ai porci? Anche qui si potrebbe avere una traduzione inesatta del testo primitivo. La preposizione (emprosthen) nel corrispondente aramaico non significa solo ‘davanti’ ma anche ‘naso’. I verbi ‘dare’ e ‘gettare’ possono ugualmente significare ‘appendere’ e ‘ornare’ (cfr. M. Blak, An Aramaic Approach to the Gospels and Acts, Oxford 1954; J. Jeremias art.cit., p. 273). In base a questo sottofondo aramaico il tenore della frase è maggiormente in armonia col senso proposto sopra. Come lì veniva sconsigliato di appendere catenine al collo dei cani, qui si sconsiglia di ornare di perle il muso dei porci. Abbiamo una conferma di questo nel Libro dei Proverbi: «Un anello d’oro al naso di un porco, tale è la donna bella ma priva di senno» (11,22). Gesù raccomanda il discernimento nell’annuncio del suo Vangelo, diversamente gli ascoltatori, invece di convertirsi, combattono la buona novella. Questo versetto insegna la moderazione, la discrezione, la cautela. Il Vangelo non può essere imposto con la violenza, perché otterrebbe l’effetto contrario.
Il v. 12 è chiamato solitamente «la regola d’oro». Gesù afferma che la perfezione cristiana consiste nella perfezione dell’amore del prossimo. Tutto l’insegnamento evangelico si riassume nel servizio prestato all’altro, anche a prezzo del proprio interesse, perché l’altro è il proprio fratello. L’imperativo «fate» richiede un amore concreto e operoso. L’amore cristiano è più di una semplice comprensione o benevolenza verso i bisognosi e i deboli: è considerarel’altro come parte integrante del proprio essere. Per questo il peccato più grande è l’egocentrismo, e la virtù più importante è l’impegno sociale e comunitario.
La «regola d’oro» consiste soprattutto nella «regola dell’immedesimazione» o, più prosaicamente, «nel sapersi mettere nei panni degli altri», nella capacità di trasferirsi con amore e fantasia nella situazione dell’altro (anche del nemico). La mancanza di fantasia è mancanza d’amore.
Nel processo di Majdanek risultò evidente che questa mancanza di immedesimazione negli altri può avere conseguenze disastrose. Gli accusati di questo orribile campo di concentramento dimostrarono la quasi totale incapacità di trasferirsi nella situazione delle loro vittime.
La regola d’oro del v. 12 ci spinge verso un’operosità libera e creativa per il bene del prossimo. Essa è espressa in forma positiva e ci sprona a fare tutto il bene possibile a tutti. Ci invita a trasferirci con amore e fantasia nella situazione degli altri, nei panni degli altri. La mancanza di fantasia e di inventiva è mancanza d’amore. Il verbo «fare» indica un amore concreto e tangibile, come ci insegna anche la 1Gv 3,16-18: «Da questo abbiamo conosciuto l’amore: egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli. Ma se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio? Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità».
La novità del vangelo sta nella concentrazione di tutta la volontà di Dio nel comandamento dell’amore. Questo amore, manifestato a noi in Cristo, ha la sua sorgente e il suo modello nel Padre (Mt 5,43-48).
La «via» (v. 13) è il simbolo del cammino morale dell’uomo. La «via che conduce alla vita» è quella del vangelo, è Gesù in persona (Gv 14,6). La porta stretta e la via angusta significano le rinunce e le persecuzioni connesse con la scelta di vita cristiana. L’ingresso attraverso la porta stretta è l’ingresso nel regno di Dio (Mt 5,20; 18,1; ecc.), nella vita (Mt 18,8-9; 19,17), nella sala delle nozze (Mt 25,10) e nella gioia del Signore (Mt 25,21.23). In questo contesto del discorso della montagna, l’imperativo «entrate» significa: fate la volontà del Padre. Solo facendo la volontà del Padre si entra nel regno di Dio (Mt 7, 21). Il discorso sui «molti» e sui «pochi» si riferisce alla situazione presente e non a quella definitiva dopo il giudizio. La via comoda della mediocrità, del peccato e dell’egoismo è molto affollata. Il sentiero stretto e ripido che porta a Dio, tracciato dal discorso della montagna, sembra poco battuto. Gesù quindi ci esorta: «Entrate per la porta stretta». Il tema della salvezza sarà ripreso in Mt 19,16-26. Alla domanda dei discepoli: «Chi si potrà dunque salvare?»
Gesù risponde: «Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile». Qui, come in 22,14, Matteo recepisce la concezione pessimistica dell’apocalittica extra-biblica: «L’Altissimo ha creato questo mondo per molti, ma quello futuro per pochi» (4 Esd 8,1) non per ragguagliarci sul numero dei salvati,ma per spronarci all’impegno. Gesù offre la salvezza a tutti (Mt 26,28), ma tocca ai singoli accoglierla con decisione libera e responsabile.
Padre Lino Pedron
---------
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento