Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato. Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano. E Gesù, avvicinatosi, disse loro: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.
Matteo non descrive l’ascensione di Gesù come fanno gli Atti degli Apostoli, ma, servendosi di immagini diverse, propone il medesimo messaggio.
A differenza di Luca e Giovanni, egli colloca l’incontro con il Risorto non a Gerusalemme ma in Galilea. Questa ambientazione geografica ha un valore teologico: l’evangelista vuole affermare che la missione degli apostoli inizia là dov’era cominciata quella del loro Maestro.
La Galilea era una regione disprezzata. A causa delle frequenti invasioni dal nord e dall’est, era abitata da una popolazione eterogenea, derivata da una mescolanza di razze. Isaia la designa come “il territorio dei Gentili”, cioè, dei pagani (Is 9,1) e i giudei ortodossi la guardavano con sospetto e diffidenza. A Nicodemo che timidamente cercava di difendere Gesù, i farisei di Gerusalemme obiettarono: “Studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea” (Gv 7,52).
È proprio a questi semi-pagani – vuole dire Matteo – che ora è destinato il vangelo. Gerusalemme, la città che ha rifiutato il messia di Dio, ha perso il suo privilegio di essere il centro spirituale di Israele.
L’incontro del Risorto con i discepoli avviene sul monte (v. 16).
Commentando il vangelo della seconda domenica di Quaresima abbiamo chiarito il significato biblico del monte: era il luogo delle manifestazioni di Dio; in cima al monte egli si era manifestato a Mosè ed Elia. Matteo impiega spesso questa immagine: colloca Gesù sul monte ogni volta che insegna o compie qualche gesto particolarmente importante. Se si tiene presente questo fatto, si comprende il significato della scena narrata nel brano di oggi: l’invio dei discepoli nel mondo è un avvenimento decisivo. Non solo, ma è abilitato a svolgere questa missione solo chi, sul monte, ha fatto l’esperienza del Risorto e ha assimilato il suo messaggio.
L’annotazione che “alcuni degli apostoli ancora dubitavano” (v. 17) è sorprendente. Come potevano avere ancora dei dubbi se avevano già incontrato il Risorto a Gerusalemme il giorno di Pasqua? Dal punto di vista della catechesi, questo particolare è indicativo. Per Matteo la comunità cristiana non è composta da gente perfetta, ma da persone in cui continuano ad essere presenti il bene e il male, la luce e la tenebra. Fra i primi discepoli riscontriamo questa situazione: hanno fede, ma permangono ancora dubbi e incertezze.
È possibile credere in Cristo ed avere dubbi. Impossibile è il contrario: non può esistere la fede assieme all’evidenza. Non si può “credere” che il sole esista: c’è la certezza, lo si può vedere, sono scientificamente verificabili gli effetti della sua luce e del suo calore. Nel campo della fede questa evidenza è impossibile. Come gli apostoli, anche noi abbiamo la convinzione profonda della verità della risurrezione di Cristo, ma non la si può dimostrare.
Nella seconda parte del brano (vv. 18-20) c’è l’invio degli apostoli ad evangelizzare il mondo intero.
Durante la sua vita pubblica, Gesù li aveva mandati ad annunciare il regno dei cieli con queste istruzioni: “Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele” (Mt 10,5-6). Dopo la Pasqua la loro missione si amplia, diviene universale.
La luce si era accesa in Galilea quando Gesù, lasciata Nazaret, si era stabilito a Cafarnao. Il popolo immerso nelle tenebre aveva visto una grande luce; su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte, una luce si era levata (Mt 4,16). Ora la sua luce deve splendere in tutto il mondo. Come hanno annunciato i profeti, Israele diviene “luce delle genti” (Is 42,6).
Il momento è decisivo e Gesù si richiama alla sua autorità: è stato inviato dal Padre a portare il messaggio della salvezza; ora egli affida questo compito alla comunità dei discepoli, conferendo loro i suoi stessi poteri.
La chiesa è chiamata a rendere presente Cristo nel mondo. Mediante il battesimo genera nuovi figli che vengono inseriti nella comunione di vita della trinità, del Padre, del Figlio e dello Spirito. Missione sublime, ma ardua; suscita sgomento e trepidazione in chi è chiamato a svolgerla.
Ogni vocazione è sempre accompagnata dalla paura dell’uomo e da una promessa del Signore che assicura: “Non temere, io sono con te”. A Giacobbe in viaggio verso una terra ignota Dio garantisce: “Io sono con te e ti proteggerò dovunque andrai, non ti abbandonerò” (Gn 28,15); a Israele deportato a Babilonia dichiara: “Tu sei prezioso ai miei occhi e io ti amo. Non temere perché io sono con te” (Is 43,4-5); a Mosè che obietta: “Chi sono io per andare dal faraone e per fare uscire gli israeliti dall’Egitto?”, risponde: “Io sarò con te” (Es 3,11-12); a Paolo che a Corinto è tentato di scoraggiarsi, il Signore dice: “Non aver paura, perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male” (At 18,9-10).
La promessa del Risorto ai discepoli che stanno per muovere i primi, timidi passi, non può essere diversa: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (v. 20). Si chiude così, com’era iniziato, il vangelo di Matteo: con il richiamo all’Emmanuele, al Dio con noi – nome con il quale il messia era stato annunciato dai profeti (Mt 1,22-23).
Fernando Armellini (biblista)
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