Gli disse Tommaso: “Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?”. Gli disse Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se conoscete me, conoscerete anche il Padre: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto”.
Gli disse Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta”. Gli rispose Gesù: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere. Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse.
In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre.
Il brano del vangelo di oggi è tratto dal primo dei tre discorsi di addiopronunciati da Gesù durante l’ultima cena, subito dopo che Giuda è uscito per mettere in atto il suo proposito di tradimento. Sono chiamati così perché in essi Gesù sembra dettare le sue ultime volontà, prima di affrontare la passione e la morte.
La liturgia ce li fa meditare dopo la Pasqua per una ragione molto semplice: un testamento viene aperto e acquista il suo significato solo dopo la morte di chi lo ha dettato. Le parole pronunciate da Gesù durante l’ultima cena non erano riservate agli apostoli riuniti nel cenacolo, ma rivolte ai discepoli di tutti i tempi e il momento più indicato per comprenderle e meditarle è proprio il tempo di Pasqua.
Il brano di oggi inizia con una frase che può essere fraintesa: “Nella casa del Padre mio ci sono molti posti. Io vado a prepararvi un posto; quando l’avrò preparato ritornerò e vi prenderò con me. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via” (vv. 2-4).
Gesù sembra voler dire che è giunto per lui il momento di andare in cielo e promette che là preparerà un posto anche per i suoi discepoli.
Questa spiegazione non soddisfa, sia perché siamo convinti che in paradiso è già tutto pronto da molto tempo, sia perché l’idea delle poltroncine numerate, corrispondenti ai vari gradi di premio, con il pericolo che qualcuno possa anche rimanere senza posto, non entusiasma.
Il senso della frase è diverso, molto più concreto e attuale per noi e per la vita delle nostre comunità.
Gesù dice che deve percorrere un “cammino” difficile e aggiunge che i suoi discepoli dovrebbero conoscere molto bene questa “via”, perché ne ha parlato spesso.
Tommaso risponde, a nome di tutti: noi non conosciamo questa “via” e non riusciamo a intuire dove tu voglia andare.
Gesù spiega: percorrerà egli stesso, per primo, il “cammino”, poi, una volta compiuta la sua missione, tornerà e prenderà con sé i discepoli, infonderà loro il suo coraggio e la sua forza, così saranno resi capaci di seguire i suoi passi.
Ora è chiaro qual è la “via”: è il cammino verso la Pasqua, percorso difficile perché esige il sacrificio della vita. Gesù ne ha parlato tante volte, ma i discepoli si sono sempre mostrati restii a capire. Quando accennava al “dono della vita”, preferivano distrarsi, pensare ad altro.
In questa prospettiva diviene chiara anche la questione dei “molti posti nella casa del Padre”. Chi ha accettato di seguire la “via” percorsa da Gesù, si viene a trovare immediatamente nel regno di Dio, nella casa del Padre. Questa casa non è il paradiso, ma la comunità cristiana, è lì che ci sono molti posti, cioè, tanti servizi, tante mansioni da svolgere.
Sono molti i modi in cui si concretizza il dono della propria vita. I “molti posti” altro non sono che i “diversi ministeri”, le diverse situazioni in cui ognuno è chiamato a mettere a disposizione dei fratelli le proprie capacità, i molti doni ricevuti da Dio.
Fino al concilio Vaticano II i laici non erano considerati membri attivi della Chiesa; non partecipavano all’eucaristia, “assistevano”; non celebravano la riconciliazione, andavano a “ricevere” l’assoluzione. Erano spesso spettatori inerti di ciò che i preti facevano. Oggi abbiamo capito che ogni cristiano deve essere attivo, non per la carenza di preti, ma per il fatto che ha un compito da svolgere all’interno della comunità.
Gesù dice che, nello svolgimento del proprio ministero, non ci possono essere motivi di invidia e di gelosia: i “posti”, cioè, i servizi da rendere ai fratelli sono molteplici e solo chi non è ancora stato scosso dalla novità di vita, comunicata dalla fede nel Risorto, può restare inoperoso.
Nella società civile, il posto è valutato in base al potere, al prestigio sociale che conferisce, al denaro con cui è rimunerato. La domanda: “Che lavoro fai?” equivale a: “Quanto guadagni?”.
Il posto preparato per ciascuno da Gesù è valutato invece in base al servizio: il “posto” migliore è quello dove si possono servire di più e meglio i fratelli.
Il brano è un invito alla verifica della vita comunitaria: qual è la percentuale dei membri attivi? Ci sono degli impegni che nessuno si vuole assumere? C’è competizione per accaparrarsi la responsabilità di qualche incarico? Dei molteplici “posti di lavoro” preparati da Gesù ce ne sono ancora molti scoperti? Ci sono dei “disoccupati”? Perché?
La seconda parte del vangelo di oggi (vv. 8-12) è centrata sulla domanda di Filippo: “Signore, mostraci il Padre e questo ci basta”.
“Mostrami la tua gloria!” – aveva chiesto Mosè al Signore – e Dio gli aveva risposto: “Tu non puoi vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo” (Es 33,18.20).
Pur coscienti di questa impossibilità di contemplare il Signore, i pii israeliti continuavano a implorare: “Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto” (Sal 27,8-9); “L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente, quando verrò e vedrò il volto di Dio?” (Sal 42,3).
Filippo sembra farsi interprete di quest’intimo anelito del cuore umano. Sa che “Dio nessuno lo ha mai visto” (Gv 1,18), perché “abita una luce inaccessibile che nessuno fra gli uomini ha mai visto né può vedere” (1 Tm 6,16); ma ricorda anche la beatitudine riservata ai puri di cuore: “Vedranno Dio” (Mt 5,8) e pensa che Gesù possa soddisfare la sua segreta aspirazione. Avanza così una richiesta che sembra l’eco di quelle manifestate da Mosè e dai salmisti.
Nella sua risposta, Gesù indica il modo per vedere Dio: bisogna guardare a lui. Egli è il volto umano che Dio ha assunto per manifestarsi, per stabilire un rapporto di intimità, di amicizia, di comunione di vita con l’uomo. È “l’immagine del Dio invisibile” (Col 1,15), “l’irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza” (Eb 1,3).
Per conoscere il Padre non si devono fare ragionamenti, non vale la pena perdersi in sottili disquisizioni filosofiche, basta contemplare Gesù, osservare ciò che fa, ciò che dice, ciò che insegna, come si comporta, come ama, chi preferisce, chi frequenta, chi accarezza e da chi si lascia accarezzare, con chi va a cena, chi sceglie, chi rimprovera, chi difende... perché così fa il Padre. Le opere che Gesù compie sono quelle del Padre (v. 10).
C’è un momento in cui il Padre manifesta pienamente il suo volto: è sulla croce. Lì c’è la rivelazione somma del suo amore per l’uomo, lì appare in tutto il suo splendore la sua gloria (Eb 1,3), lì brilla in pienezza la sua luce (2 Cor 4,6).
“Chi ha visto me ha visto il Padre” – può affermare Gesù (v. 9).
Ma questo vedere non si riduce allo sguardo di chi ha presenziato agli eventi, ai fatti, ai gesti concreti da lui compiuti. È uno sguardo di fede che viene richiesto, uno sguardo capace di andare oltre le apparenze, oltre il puro dato materiale, uno sguardo che colga nelle opere di Gesù la rivelazione di Dio.
Questo vedere equivale a credere.
Chi vede in lui il Padre, chi gli accorda piena fiducia ed è disposto a giocarsi la vita sui valori da lui proposti, compirà le sue stesse opere e ne farà di più grandi. Non si tratta dei miracoli, ma del dono totale di sé per amore.
Il Padre continuerà a realizzare nei discepoli le opere di amore che ha compiuto in Gesù.
Fernando Armellini (biblista)
La liturgia ce li fa meditare dopo la Pasqua per una ragione molto semplice: un testamento viene aperto e acquista il suo significato solo dopo la morte di chi lo ha dettato. Le parole pronunciate da Gesù durante l’ultima cena non erano riservate agli apostoli riuniti nel cenacolo, ma rivolte ai discepoli di tutti i tempi e il momento più indicato per comprenderle e meditarle è proprio il tempo di Pasqua.
Il brano di oggi inizia con una frase che può essere fraintesa: “Nella casa del Padre mio ci sono molti posti. Io vado a prepararvi un posto; quando l’avrò preparato ritornerò e vi prenderò con me. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via” (vv. 2-4).
Gesù sembra voler dire che è giunto per lui il momento di andare in cielo e promette che là preparerà un posto anche per i suoi discepoli.
Questa spiegazione non soddisfa, sia perché siamo convinti che in paradiso è già tutto pronto da molto tempo, sia perché l’idea delle poltroncine numerate, corrispondenti ai vari gradi di premio, con il pericolo che qualcuno possa anche rimanere senza posto, non entusiasma.
Il senso della frase è diverso, molto più concreto e attuale per noi e per la vita delle nostre comunità.
Gesù dice che deve percorrere un “cammino” difficile e aggiunge che i suoi discepoli dovrebbero conoscere molto bene questa “via”, perché ne ha parlato spesso.
Tommaso risponde, a nome di tutti: noi non conosciamo questa “via” e non riusciamo a intuire dove tu voglia andare.
Gesù spiega: percorrerà egli stesso, per primo, il “cammino”, poi, una volta compiuta la sua missione, tornerà e prenderà con sé i discepoli, infonderà loro il suo coraggio e la sua forza, così saranno resi capaci di seguire i suoi passi.
Ora è chiaro qual è la “via”: è il cammino verso la Pasqua, percorso difficile perché esige il sacrificio della vita. Gesù ne ha parlato tante volte, ma i discepoli si sono sempre mostrati restii a capire. Quando accennava al “dono della vita”, preferivano distrarsi, pensare ad altro.
In questa prospettiva diviene chiara anche la questione dei “molti posti nella casa del Padre”. Chi ha accettato di seguire la “via” percorsa da Gesù, si viene a trovare immediatamente nel regno di Dio, nella casa del Padre. Questa casa non è il paradiso, ma la comunità cristiana, è lì che ci sono molti posti, cioè, tanti servizi, tante mansioni da svolgere.
Sono molti i modi in cui si concretizza il dono della propria vita. I “molti posti” altro non sono che i “diversi ministeri”, le diverse situazioni in cui ognuno è chiamato a mettere a disposizione dei fratelli le proprie capacità, i molti doni ricevuti da Dio.
Fino al concilio Vaticano II i laici non erano considerati membri attivi della Chiesa; non partecipavano all’eucaristia, “assistevano”; non celebravano la riconciliazione, andavano a “ricevere” l’assoluzione. Erano spesso spettatori inerti di ciò che i preti facevano. Oggi abbiamo capito che ogni cristiano deve essere attivo, non per la carenza di preti, ma per il fatto che ha un compito da svolgere all’interno della comunità.
Gesù dice che, nello svolgimento del proprio ministero, non ci possono essere motivi di invidia e di gelosia: i “posti”, cioè, i servizi da rendere ai fratelli sono molteplici e solo chi non è ancora stato scosso dalla novità di vita, comunicata dalla fede nel Risorto, può restare inoperoso.
Nella società civile, il posto è valutato in base al potere, al prestigio sociale che conferisce, al denaro con cui è rimunerato. La domanda: “Che lavoro fai?” equivale a: “Quanto guadagni?”.
Il posto preparato per ciascuno da Gesù è valutato invece in base al servizio: il “posto” migliore è quello dove si possono servire di più e meglio i fratelli.
Il brano è un invito alla verifica della vita comunitaria: qual è la percentuale dei membri attivi? Ci sono degli impegni che nessuno si vuole assumere? C’è competizione per accaparrarsi la responsabilità di qualche incarico? Dei molteplici “posti di lavoro” preparati da Gesù ce ne sono ancora molti scoperti? Ci sono dei “disoccupati”? Perché?
La seconda parte del vangelo di oggi (vv. 8-12) è centrata sulla domanda di Filippo: “Signore, mostraci il Padre e questo ci basta”.
“Mostrami la tua gloria!” – aveva chiesto Mosè al Signore – e Dio gli aveva risposto: “Tu non puoi vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo” (Es 33,18.20).
Pur coscienti di questa impossibilità di contemplare il Signore, i pii israeliti continuavano a implorare: “Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto” (Sal 27,8-9); “L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente, quando verrò e vedrò il volto di Dio?” (Sal 42,3).
Filippo sembra farsi interprete di quest’intimo anelito del cuore umano. Sa che “Dio nessuno lo ha mai visto” (Gv 1,18), perché “abita una luce inaccessibile che nessuno fra gli uomini ha mai visto né può vedere” (1 Tm 6,16); ma ricorda anche la beatitudine riservata ai puri di cuore: “Vedranno Dio” (Mt 5,8) e pensa che Gesù possa soddisfare la sua segreta aspirazione. Avanza così una richiesta che sembra l’eco di quelle manifestate da Mosè e dai salmisti.
Nella sua risposta, Gesù indica il modo per vedere Dio: bisogna guardare a lui. Egli è il volto umano che Dio ha assunto per manifestarsi, per stabilire un rapporto di intimità, di amicizia, di comunione di vita con l’uomo. È “l’immagine del Dio invisibile” (Col 1,15), “l’irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza” (Eb 1,3).
Per conoscere il Padre non si devono fare ragionamenti, non vale la pena perdersi in sottili disquisizioni filosofiche, basta contemplare Gesù, osservare ciò che fa, ciò che dice, ciò che insegna, come si comporta, come ama, chi preferisce, chi frequenta, chi accarezza e da chi si lascia accarezzare, con chi va a cena, chi sceglie, chi rimprovera, chi difende... perché così fa il Padre. Le opere che Gesù compie sono quelle del Padre (v. 10).
C’è un momento in cui il Padre manifesta pienamente il suo volto: è sulla croce. Lì c’è la rivelazione somma del suo amore per l’uomo, lì appare in tutto il suo splendore la sua gloria (Eb 1,3), lì brilla in pienezza la sua luce (2 Cor 4,6).
“Chi ha visto me ha visto il Padre” – può affermare Gesù (v. 9).
Ma questo vedere non si riduce allo sguardo di chi ha presenziato agli eventi, ai fatti, ai gesti concreti da lui compiuti. È uno sguardo di fede che viene richiesto, uno sguardo capace di andare oltre le apparenze, oltre il puro dato materiale, uno sguardo che colga nelle opere di Gesù la rivelazione di Dio.
Questo vedere equivale a credere.
Chi vede in lui il Padre, chi gli accorda piena fiducia ed è disposto a giocarsi la vita sui valori da lui proposti, compirà le sue stesse opere e ne farà di più grandi. Non si tratta dei miracoli, ma del dono totale di sé per amore.
Il Padre continuerà a realizzare nei discepoli le opere di amore che ha compiuto in Gesù.
Fernando Armellini (biblista)
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