Fin dai primi tempi della Chiesa, il racconto del cieco nato viene proposto in Quaresima. La ragione è facile da intuire: nella storia del cieco nato ogni cristiano può facilmente riconoscere la propria storia. Prima di incontrare Cristo era un cieco, poi il Maestro gli ha donato la vista, lo ha illuminato nell’acqua del fonte battesimale. Quando, dopo Costantino, si cominciarono a costruire i primi battisteri, si diede loro il nome diphotistéria: luoghi dell’illuminazione. Nel brano di oggi, Giovanni prende spunto da un episodio della vita di Gesù e se ne serve per sviluppare il tema centrale del messaggio cristiano: la salvezza donata da Cristo. Il linguaggio che impiega è quello biblico: la contrapposizione tenebre-luce. Nella Bibbia le tenebre hanno sempre una connotazione negativa, sono il simbolo del potere oscuro del male, della morte, della perdizione; la luce invece rappresenta l’orientamento verso Dio, la scelta del bene e della vita. La guarigione del cieco nato è collocata nel contesto della festa delle capanne (Gv 7,2), la più popolare di tutte le feste giudaiche, tanto da essere chiamata semplicemente “la festa”. Durava una settimana ed era caratterizzata da un’esplosione di gioia e dalle liturgie della luce e dell’acqua. Sulla spianata del tempio, illuminata ogni notte da grandi fiaccole, c’era un pozzo cui si attingeva l’acqua per le libagioni. Ad esso veniva riferita la profezia di Isaia: “Attingerete con gioia alle sorgenti della salvezza” (Is 12,3). Nel secondo giorno della festa si celebrava il rito della “gioia del pozzo”, con danze e canti. Gesù attese “l’ultimo giorno, il più solenne della festa” per levarsi in piedi ed esclamare a gran voce: “Se qualcuno ha sete venga a me e beva chi crede in me” (Gv 7,37). Fu durante questa festa della luce che egli proclamò anche: “Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12). Per cogliere la densità del messaggio del vangelo di oggi va tenuto presente questo contesto festivo e i riferimenti alla luce e all’acqua. Il cieco giungerà a vedere la lucesoltanto dopo essersi lavato con l’acqua dell’Inviato. Divideremo il brano in sette parti, come se si trattasse di sette scene di un’opera teatrale.
La prima scena (vv. 1-5) si apre con un dialogo fra Gesù e i discepoli. Il loro intervento è chiaramente un artificio letterario, mediante il quale si offre a Gesù l’opportunità di dare la chiave di lettura dell’episodio. Se si riduce il brano a unreportage giornalistico, se non si coglie il simbolismo della guarigione del cieco nato, si perde il messaggio centrale: Gesù “è la luce del mondo” (vv. 4-5). La domanda dei discepoli è forse anche la nostra: “Come mai quest’uomo è nato cieco? Chi ha peccato: lui o i suoi genitori?” (v. 2). Al tempo di Gesù si riteneva che, nella sua infinita giustizia, Dio premiasse i buoni e punisse i malvagi già in questo mondo, in proporzione alle loro opere. Le disgrazie, le malattie, le sofferenze erano ritenute un castigo per i peccati. Questa teologia – dettata dalla logica e dai criteri umani – non è mai stata facile da difendere. Giobbe la irrideva: “I malvagi prosperano, invecchiano, anzi, sono potenti e gagliardi. La loro prole prospera insieme con loro… Finiscono nel benessere i loro giorni e muoiono tranquilli” (Gb 21,7-8.13) e a chi gli obiettava: “Dio serba per i loro figli il suo castigo”, rispondeva: “Ma la faccia pagare piuttosto a lui stesso, che sia lui a soffrire! Cosa glien’importa infatti della sua famiglia quando il numero dei suoi giorni è finito?” (Gb 21,19-21). Malgrado queste inconfutabili ragioni, la teologia della “giusta retribuzione” era accettata da tutti e, per spiegare la nascita di una persona disabile, si giungeva addirittura a supporre che avesse peccato nel grembo materno. La posizione che Gesù prende su questo argomento è chiara e illuminante: “Né il cieco, né il suoi genitori hanno peccato” (v. 3). È una bestemmia parlare di castighi di Dio, è un modo pagano di immaginarlo. Quando la Bibbia parla dei “castighi di Dio” impiega un linguaggio arcaico che non è più il nostro e con esso intende denunciare i disastri provocati dal peccato, non da Dio. Oggi è scorretto e deviante usare la metafora del “castigo di Dio”, senza chiarirne subito il significato. Di fronte al male non ha senso chiedersi di chi è la colpa, l’unica cosa da fare è impegnarsi per eliminarlo, come Gesù ha fatto. “È così – dice Gesù parlando del cieco – perché in lui possano manifestarsi le opere di Dio” (v. 3). Ogni evento è ambivalente. Siamo noi che abbiamo catalogato gli avvenimenti in buoni e cattivi, ma ognuno di loro può essere buono o cattivo. A seconda di come lo si vive, si tramuta in salvezza o segna una sconfitta. Il cieco non ha colpa di essere nato così. Qui fa la sua comparsa il simbolismo giovanneo: la cecità è la condizione nella quale l’uomo nasce. Non è colpa sua né degli altri. È cieco e non ha nemmeno l’idea di che cosa sia la luce, tanto è vero che non gli passa neppure per la mente di chiedere a Gesù di essere curato, è Gesù che prende l’iniziativa di guarirlo e, con il suo gesto, mostra che la sua salvezza (la sua luce) è un dono completamente gratuito. Dove c’è lui, c’è la luce, è giorno. Dove lui è assente, è notte fonda (v. 5).
Nella seconda scena (vv. 6-7) viene riferita, in modo estremamente sintetico, la guarigione del cieco. Il metodo impiegato ci risulta piuttosto strano: il fango, la saliva… Gesù si adegua alla mentalità della gente del suo tempo che riteneva la saliva un concentrato dell’alito, dello spirito, della forza di una persona. In questo gesto – compiuto altre volte da Gesù (Mc 7,33; 8,23) – c’è forse un riferimento alla creazione dell’uomo raccontata nel libro della Genesi (Gn 2,7). L’evangelista vorrebbe cioè insinuare l’idea che dall’alito, dallo Spirito di Gesù nasce l’uomo nuovo, illuminato. Il cieco non ricupera immediatamente la vista, deve andare a lavarsi all’acqua di Siloe e Giovanni rileva che questo nome significa Inviato. Il riferimento a Gesù – l’inviato del Padre – è esplicito: è la sua acqua, quella promessa alla samaritana, che cura la cecità dell’uomo.
La terza scena introduce il primo degli interrogatori fatti al cieco (vv. 8-12). Illuminato da Gesù, è divenuto irriconoscibile, è cambiato completamente, tanto che i vicini, che per anni gli sono vissuti accanto, si chiedono: “Ma è lui o non è lui?”. È l’immagine dell’uomo che, dal giorno in cui è divenuto discepolo, si è trasformato a tal punto da non sembrare più la stessa persona. Prima conduceva una vita corrotta, era intrattabile, egoista, avido, burbero, ora non più, è cambiato il suo modo di ragionare, di parlare, di giudicare, di valutare persone e avvenimenti, di affrontare i problemi, di reagire alle provocazioni. L’acqua che è la parola di Cristo gli ha aperto gli occhi, gli ha fatto scoprire com’era priva di senso la vita che conduceva. Ha creato un uomo nuovo, illuminato. Il cammino del discepolo verso la luce piena è però lungo e faticoso. L’evangelista lo presenta con l’immagine del cieco che comincia il suo percorso nel momento in cui incontra l’uomo Gesù. “Quell’uomo che si chiama Gesù – dice – ha fatto del fango” e a chi gli chiede: “Dov’è questo tale?”, risponde: “Non lo so”. Confessa la propria ignoranza, riconosce di non sapere ancora nulla di lui. Il punto di partenza del cammino spirituale del discepolo è la presa di coscienza di non conoscere Cristo e di sentire il bisogno di sapere qualcosa di più.
Nella quarta scena (vv. 13-17) intervengono le autorità religiose che sottopongono il cieco a un secondo interrogatorio. Non si preoccupano di verificare ciò che è accaduto. Hanno già deciso che devono condannare Gesù perché non corrisponde all’idea di uomo religioso che hanno in mente. Arrogandosi il diritto di parlare in nome di Dio, lo classificano fra i malvagi, fra i nemici del Signore in base a norme e a criteri da loro stabiliti. Questa convinzione di essere nel giusto e di non aver bisogno di altra luce, il rifiuto di rimettere in causa le proprie certezze teologiche, li porta ad affermare altezzosi: “Noi sappiamo che quest’uomo non viene da Dio…” (v. 16). Sono ciechi, convinti di vederci. La posizione assunta da questi farisei è un richiamo al pericolo che corre chiunque inizia a conoscere Cristo. Se rimane aggrappato alle proprie sicurezze e alle proprie convinzioni, se rifiuta caparbiamente ogni cambiamento, rimarrà schiavo della tenebra. Il cieco, che è cosciente di “non sapere”, muove invece un secondo passo. Ai farisei che gli chiedono: “Tu cosa dici di lui?”, risponde: “È un profeta” (v. 17). Prima pensava che fosse un semplice uomo, ora ha capito che è qualcosa di più, che è un gradino sopra: è un profeta.
La quinta scena (vv. 18-23) racconta un nuovo interrogatorio. Questa volta le autorità chiamano in causa i genitori del cieco. Detengono il potere e non possono tollerare che qualcuno metta in causa le loro convinzioni e il loro prestigio. Chi osa opporsi deve essere tolto di mezzo. Sono così potenti che perfino i genitori hanno paura di prendere posizione in favore del figlio. È la storia di chiunque viene illuminato da Cristo: non è più capito, viene abbandonato e a volte anche tradito dalle persone più care, da coloro da cui si sarebbe aspettato un incoraggiamento e un appoggio. È sempre difficile e rischioso schierarsi dalla parte della verità: la paura di alienarsi l’amicizia della gente che conta o le simpatie di chi detiene il potere, induce spesso a omettere di intervenire quando si dovrebbe, provoca reticenze e silenzi colpevoli.
Nella sesta scena (vv. 24-34) le autorità religiose chiamano di nuovo in causa il cieco. Nelle sue risposte, nel suo atteggiamento si possono cogliere le caratteristiche che contraddistinguono chi è illuminato da Cristo. - È anzitutto libero: non vende la propria testa a nessuno, dice quello che pensa. “È un profeta” – afferma, riferendosi a Gesù – e quando gli obiettano: “Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore”, si permette addirittura di fare dell’ironia: “Se sia un peccatore non lo so; una cosa so: che prima ero cieco e ora ci vedo” e, subito dopo, ancor più graffiante, soggiunge: “È davvero strano che voi non sappiate di dove sia…”. - È coraggioso:rifiuta ogni forma di servilismo, non si lascia intimidire da coloro che, abusando del loro potere, insultano, minacciano, ricorrono alla violenza (vv. 24ss.). - È sincero: non rinuncia a dire la verità anche quando questa è scomoda o sgradita a chi sta in alto, a chi è abituato a ricevere solo approvazioni e applausi dagli adulatori. - È semplice come una colomba, ma anche prudente. Le autorità tentano di intrappolarlo, costringendolo ad ammettere che si è schierato dalla parte di chi “non osserva il sabato”, ma egli, con abilità, si sottrae alla trappola: “Ve l’ho già detto, perché volete udirlo di nuovo?” e assesta una nuova stoccata ironica: “Non è che per caso volete diventare suoi discepoli?” (v. 27). - Si mantiene in un costante atteggiamento di ricerca: sa di avere intravisto qualcosa, di aver colto una parte della verità, ma è cosciente che molte cose ancora gli sfuggono. Le autorità sono invece convinte di vedere già chiaro, pensano di sapere tutto: “Noi sappiamo che quest’uomo non viene da Dio” (v. 16); “noi sappiamo che è un peccatore” (v. 24); “noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio” (v. 29). Colui che era cieco ha invece sempre riconosciuto il proprio limite: “Di dove sia quest’uomo, non lo so” (v. 12); “se sia un peccatore, non lo so” (v. 25). Quando Gesù gli chiederà se crede nel Figlio dell’uomo, egli risponderà: “Chi è?”, riconoscendo, ancora una volta, la propria ignoranza (v. 36). - Infine resiste alle pressioni e alla paura. Subisce violenza, ma non rinuncia alla luce ricevuta. Piuttosto che andare contro coscienza, preferisce essere cacciato fuori dell’istituzione (v. 34).
Nell’ultima scena (vv. 35-41) ricompare Gesù. Tutto si è svolto come se egli non esistesse. Non è più intervenuto, ha lasciato che il cieco si destreggiasse da solo in mezzo alle difficoltà e ai conflitti. Il discepolo illuminato non ha bisogno della presenza fisica del Maestro, gli basta la forza della sua luce per mantenersi saldo nella fede e fare scelte coerenti. Alla fine Gesù interviene e pronuncia la sua sentenza, l’unica che conta quando si tratta di decidere sulla riuscita o sul fallimento della vita di uomo. Dice: all’inizio c’era un uomo cieco e molti che ci vedevano; ora la situazione è capovolta, coloro che erano convinti di vedere, in realtà sono ciechi incurabili; invece colui che era cosciente della propria cecità, ora ci vede. Si noti come è stato chiamato Gesù lungo il racconto: per le autorità – per i “vedenti” – egli è “quel tale”, “quell’uomo”, “costui”; i capi non si degnano nemmeno di chiamarlo per nome; hanno occhi, ma non vogliono vedere chi egli sia. Il cieco fa un percorso di fede che corrisponde a quello di ogni discepolo: all’inizio Gesù è per lui un semplice “uomo” (v. 11); poi diviene un “profeta” (v. 17); in seguito è un “uomo di Dio” (v. 32-33); alla fine è il “Signore” (v. 38). Quest’ultimo titolo è il più importante, è quello con cui i cristiani proclamavano la loro fede. Prima di venire immerso nell’acqua del photistérion, durante la solenne cerimonia della notte di Pasqua, ogni catecumeno dichiarava, davanti a tutta comunità: “Credo che Gesù è il Signore”. Da quel momento era accolto fra “gli illuminati”.
Fernando Armellini (biblista)
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domenica 3 aprile 2011
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