martedì 16 giugno 2015

Il magistero della divina Parola

Commento al Vangelo della XI Domenica del T.O. B (Mc 4,26-34)


La fecondazione della Parola di Dio non è frutto di oratoria o di industria umana, ma è frutto della grazia che opera silenziosamente nei cuori ben disposti.
Il seminatore ha cura di preparare il terreno e di metterlo nelle condizioni di prosperare; dopo che ha gettato la sementedorme la nottecioè si abbandona a Dio e confida in Lui nelle incertezze della stagione; sorge, poi, il giorno, cioè continua il suo lavoro nella terra per quanto gli sia possibile, e cerca di aumentarne le fecondità. Egli aspetta dalla Provvidenza il frutto, e la terra, benedetta da Dio, produce essa stessa l’erba, la spiga e il frutto, aspettando, al tempo della messe, la falce.
Così avviene nella Chiesa e nelle anime: l’apostolo getta la buona semente nei cuori ben disposti, e confida nel Signore, implorando la sua misericordia e la sua grazia perché la fecondi. La grazia produce a poco a poco il frutto, e rende l’anima matura nelle vie di Dio, preparandola al Giudizio finale che sarà il tempo della messe di tutte le anime.
La parabola del granello di senapa
Chi si alimenta della Parola di Dio non deve preoccuparsi eccessivamente di veder subito il suo frutto nel cuore, perché l’azione della grazia è lenta e graduale. Chi si affanna e pretende di controllare continuamente la semente che è stata posta nel suo cuore, finisce per toglierla dal terreno e impedirne la germinazione. Occorre la pazienza dell’attesa e la fiducia grande nel Signore tanto per l’anima propria quanto per quello che si dona agli altri. Il lavoro spirituale non è mai perduto, e dopo lunga attesa vengono fuori germi insperati di vita, e il campo del Signore prospera e fruttifica.

La Chiesa non si dilata come i grandi imperi, a furia di armi e di spettacolose parate; essa appare innanzi al mondo come un piccolo granello di senape che sembra sproporzionato al suo sviluppo ma poi cresce in un grande arbusto, sul quale possono nidificare gli uccelli. Nella Chiesa poi, e nelle anime che ne fanno parte, il principio fondamentale della prosperità non è ciò che appare grande, ma l’umiltà che è piccolezza feconda. Non si raggiunge una meta elevata, ingrandendosi, ma impiccolendosi; più l’anima si umilia, più Dio la riempie di forza e di grazia; più s’impiccolisce e più cresce nelle vie della santità. Non si può, quindi, aspirare nella Chiesa a trionfi mondani o impressionanti, poiché il suo vero trionfo sta nella fecondità spirituale che la rende albero fiorito in mezzo alla sterilità universale. Gesù Cristo, parlando del granello di senape, si rivolse specialmente a quelli che attendevano il regno politico glorioso del Messia, e a quelli che, nei secoli futuri, avrebbero sognato trionfi politici del suo regno. No, la Chiesa non avrà mai questi trionfi che praticamente diminuirebbero la sua vera vita; essa è pellegrina, naviga verso gli eterni lidi, è combattente e, imbattibile, aspira alla vita eterna e non può trovare sulla terra né la sua dimora né la perfetta calma né il riposo.



Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo
-------------
----------- 

giovedì 11 giugno 2015

Nutriamoci della Parola di Dio di giovedì 11 giugno 2015

Dal Vangelo secondo Matteo (10,7-13)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché l'operaio ha diritto al suo nutrimento. In qualunque città o villaggio entriate, fatevi indicare se vi sia qualche persona degna, e lì rimanete fino alla vostra partenza. Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. Se quella casa ne sarà degna, la vostra pace scenda sopra di essa; ma se non ne sarà degna, la vostra pace ritorni a voi”. 

COMMENTO AL VANGELO - P. LINO PEDRON 
Andare in missione è ancora oggi il grande ideale della Chiesa, un ideale che coinvolge tutti, chi va e chi resta. La predicazione apostolica riprende e continua gli annunci di Gesù e del Battista, cominciando dal regno dei cieli. L'annuncio è fatto con la parola (v.7), con le opere di bene (v.8a) e con la testimonianza della vita (vv.8b-10). La predicazione è il momento prioritario. 
La lieta notizia dev'essere anzitutto ascoltata e conosciuta per trovare risonanza nel cuore dell'uomo. Ma il vangelo è soprattutto una proposta di bene: per questo dev'essere tradotto in opere di salvezza (esorcismi e guarigioni). Matteo elenca alcune norme che costituiscono lo stile missionario. La prima di esse è la povertà. Il discepolo di Cristo dona se stesso gratuitamente: è la povertà più vera e più profonda. 
Questa povertà si esprime nell'accontentarsi dello stretto necessario (v.9) e nel coraggio (che è fede) di affidare anche il problema di quel poco alla provvidenza di Dio. La ragione di questo comando riguardo alla povertà non è detta, ma scaturisce dal contesto evangelico. Nel discorso della montagna viene annunciato il regno ai poveri (Mt 5,3) e i discepoli sono invitati a reprimere le eccessive preoccupazioni terrene facendo affidamento sulla bontà del Padre celeste (Mt 6,25-34). 
Ma più ancora conta l'esempio di Gesù che vive in mezzo alla sua gente senza sapere dove posare il capo (Mt 8,20). Il missionario non può avere un comportamento diverso da quello del suo maestro (Mt 10,24) e difforme dal contenuto del messaggio che annuncia. La povertà e il distacco dalle preoccupazioni materiali sottolineano l'urgenza dell'evangelizzazione. 
Chi è totalmente assorbito dall'annuncio del messaggio cristiano non può trascinarsi dietro bagagli né preoccuparsi di faccende materiali e pecuniarie. Il missionario evangelico deve presentarsi agli uomini spoglio, umile e penitente come è richiesto dal discorso della montagna. In qualunque città o villaggio arriverà, l'apostolo dovrà farsi indicare qualche persona degna presso la quale prendere alloggio (v.11), cioè un luogo che non susciti pettegolezzi che renderebbero vana la predicazione. 
Augurare la pace significa comunicare la totalità dei beni promessi da Dio, cioè il regno dei cieli che si realizza in Gesù.
----

Nutriamoci della Parola di Dio di mercoledì 10 giugno 2015

Dal Vangelo secondo Matteo (5,17-19.)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: « Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. 
In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto. 
Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli. »

Meditazione del giorno
« Non sono venuto ad abolire la Legge e i Profeti, ma per dare compimento »
Volete sapere come, lungi dal distruggere la Legge e i profeti, Gesù Cristo viene piuttosto a confermali e a completarli? Per prima cosa, riguardo ai profeti, egli conferma con le sue opere ciò che avevano annunciato. Per cui incontriamo spessissimo nel vangelo di Matteo questa espressione: “Affinché si adempisse questa parola del profeta”…
Riguardo alla Legge, egli le ha dato compimento in tre modi. In primo luogo, non tralasciando nessuna delle prescrizioni. Dichiara infatti a Giovanni Battista: “Conviene che così adempiamo ogni giustizia” (Mt 3,15); e ai Giudei diceva: “Chi di voi può convincermi di peccato?” (Gv 8,46)…
In secondo luogo, dà compimento alla Legge volendo sottomettersi ad essa per la nostra salvezza. Quale prodigio! Sottomettendosi ad essa, ci ha comunicato la grazia di adempirla a nostra volta. San Paolo ce l’insegna con queste parole: “Il termine della Legge è Cristo, perché sia data la giustizia a chiunque crede” (Rm 10,4). Dice anche che il Salvatore ha condannato il peccato nella carne “perché la giustizia della Legge si adempisse in noi, che non camminiamo secondo la carne” (Rm 8,4). Dice ancora: “Togliamo dunque ogni valore alla Legge mediante la fede? Nient’affatto, anzi confermiamo la Legge” (Rm 3,31). Infatti la Legge tendeva a rendere l’uomo giusto, ma non ne aveva la forza. Allora è venuto Cristo, il termine della Legge e ci ha mostrato la strada che conduce alla giustizia, cioè la fede. Così, ha compiuto le intenzioni delle Legge. La lettera della Legge non poteva giustificare il peccatore; la fede in Gesù Cristo lo giustificherà. Ecco perché egli può dire: “Non sono venuto ad abolire la Legge”.
Guardando con maggiore attenzione, scorgiamo un terzo modo nel quale la Legge viene adempiuta da Cristo. In che modo? Consiste nei precetti stessi dati da Cristo: lungi dal rovesciare quelli di Mosè, ne sono la giusta conseguenza e il complemento naturale.
San Giovanni Crisostomo
-----------

L’Eucaristia Il grande segreto del regno di Dio

Corpus Domini 2015 B (Mc 14,12-16.22-26)


Gesù Cristo scelse una grande solennità, la Pasqua, per istituire il Sacramento del suo amore che era il compimento mirabile delle figure e delle profezie che lo preannunciavano. Nella Pasqua si riunivano le famiglie in maggiore intimità, e mangiavano l’agnello dopo averlo immolato al tempio; era il rinnovarsi del ricordo della liberazione dall’Egitto, ed era il sospiro alla liberazione che doveva apportare la redenzione; era un sacrificio di ringraziamento, e una solenne invocazione al Re atteso da secoli. Gesù Cristo volle unire la figura alla Realtà, e proprio nella Cena pasquale si donò come Agnello di vita e di liberazione.
Nel primo giorno degli Azzimi, cioè della solennità pasquale nella quale si mangiava il pane non fermentato, gli apostoli domandarono a Gesù dove volesse che preparassero il banchetto. Essi erano pellegrini nella Giudea, e avevano necessità di essere ospitati da qualche persona amica. Gli Ebrei, infatti, avevano, nelle case, delle stanze più ampie dove avvenivano le riunioni familiari e la preghiera comune, e le cedevano volentieri a quelli che peregrinavano per la Pasqua.
Gesù Cristo, conoscendo già l’imminente tradimento di Giuda, non volle che egli sapesse in anticipo il luogo del suo convegno pasquale, affinché non avesse potuto ordire una congiura con i principi dei sacerdoti, e disturbare la festa del suo amore. Ordinariamente era proprio Giuda che si occupava delle necessità temporali degli apostoli, ma questa volta Gesù incaricò Pietro e Giovanni di trovare un cenacolo ospitale e preparare la Pasqua. Egli li mandò, dando loro delle indicazioni per rintracciare la persona amica, e fece così perché Giuda non avesse potuto conoscerla precedentemente.
Le indicazioni che Gesù diede a Pietro e a Giovanni, per quanto semplici, mostravano che egli conosceva tutto antecedentemente; essi avrebbero incontrato un uomo che portava una anfora d’acqua; dovevano dunque dirigersi verso la fontana pubblica. Il Redentore sapeva che avrebbero trovato non un uomo qualunque, ma il servo di una famiglia conosciuta e amica. Forse il cenacolo era di proprietà di uno dei suoi amici occulti, forse di Nicodemo, ed Egli, delicatamente, non volle comprometterlo. Giuda avrebbe potuto denunciarlo, e se avesse ordito la cattura proprio nel cenacolo, avrebbe causato un disturbo grandissimo al padrone del luogo.
La delicata, divina signorilità di Gesù gli faceva evitare qualunque penosa sorpresa a colui che l’avrebbe ospitato.
L’immediata condiscendenza del padrone della casa mostra che egli era generoso e affezionato al Redentore, e perciò gli apostoli poterono preparare sollecitamente quanto occorreva alla cena.
L’annuncio del tradimento addolorò immensamente gli apostoli, e li predispose indirettamente ad un maggiore raccoglimento interiore. Li concentrò nel divino Maestro con un amore più tenero, e li raccolse in un certo esame di coscienza sulle responsabilità che potevano avere; questo concorse a prepararli al gran dono che Gesù stava per fare loro. Con la semplicità che il Signore ha in tutte le sue grandi opere, il Redentore prese il pane e, dopo averlo benedetto, lo spezzò e lo diede a tutti, pronunciando una parola onnipotente che lo transustanziò nel suo Corpo divino: Questo è il mio Corpo. Poi prese il calice col vino, rese grazie a Dio per il beneficio che concedeva a tutti, e lo distribuì a tutti perché lo bevessero, dicendo: Questo è il mio Sangue del Nuovo Testamento, il quale sarà sparso per molti.
Poche parole, pochi momenti, bastarono a creare il miracolo più grande di amore.


Gli apostoli quasi non se ne accorsero, ma non poterono non sentire in loro una nuova vita. Erano tutti congiunti al loro Maestro come un solo corpo e un’anima sola; erano il Corpo mistico di Lui, avendo in loro la sua vita; erano innanzi al Padre celeste come creature nuove, illuminate dalla presenza del loro Redentore. Egli era a mensa come tutto trasfigurato, ineffabile nel suo sguardo di infinita carità, Sole divino che irradiava nei suoi cari! Quali momenti! Nessuna madre ha avuto mai simile tenerezza per i suoi figli, e li ha sentiti così carne della sua carne e sangue del suo sangue. Nessuna effusione d’amore ha potuto raggiungere questa che dona la vita del Redentore come vita nostra!

Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo
-----------------

giovedì 4 giugno 2015

Nutriamoci della Parola di Dio di giovedì 4 giugno 2015

Dal Vangelo secondo Marco (12,28-34)
In quel tempo, si accostò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: “Qual è il primo di tutti i comandamenti?”. Gesù rispose: “Il primo è: Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l'unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c'è altro comandamento più importante di questi”. Allora lo scriba gli disse: “Hai detto bene, Maestro, e secondo verità che egli è unico e non v'è altri all'infuori di lui; amarlo con tutto il cuore e con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olocausti e i sacrifici”. Gesù, vedendo che aveva risposto saggiamente, gli disse: “Non sei lontano dal regno di Dio”. E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo. 

COMMENTO AL VANGELO - P. LINO PEDRON 
La domanda che lo scriba pone a Gesù non è oziosa. Data la molteplicità delle prescrizioni della legge (se ne contavano 613, ripartite in 365 proibizioni – quanti sono i giorni dell’anno – e 248 comandamenti positivi, quante si credeva fossero le parti del corpo umano), ci si poteva legittimamente interrogare sul loro valore e chiedersi quale fosse il comandamento più grande. La risposta di Gesù che pone nell’amore di Dio e del prossimo il centro della legge, non è una novità assoluta: lo insegnavano anche i rabbini di allora. La novità consiste nell’avere unificato il testo del Dt 6,4–5 con il testo del Lv 19,18. Ma per cogliere questo centro sono necessarie due precisazioni. La Bibbia insegna che il nostro amore per Dio e per il prossimo suppone un fatto precedente, senza il quale tutto resterebbe incomprensibile: l’amore di Dio per noi. Qui è l’origine e la misura del nostro amore. L’amore dell’uomo nasce dall’amore di Dio e deve misurarsi su di esso. E qui si inserisce la seconda precisazione: chi è il prossimo da amare? La Bibbia risponde: ogni uomo che Dio ama, cioè tutti gli uomini, senza alcuna distinzione, perché Dio si è rivelato in Gesù come amore universale. La nostra vita è amare Dio e unirci a lui (Dt 30,20), diventando per grazia ciò che lui è per natura. Il nostro amore per lui è la via per la nostra divinizzazione, perché uno diventa ciò che ama. Chi risponde a questo amore passa dalla morte alla vita, mentre chi non ama Dio e il prossimo rimane nella morte (1Gv 3,14). Dio è amore più forte della morte (Ct 8,6). La sua fedeltà dura in eterno (Sal 117, 2). Quando noi moriamo, egli ci ridà la vita. «Riconoscerete che io sono il Signore quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri» (Ez 37,13). Dio ha creato tutto per l’esistenza, perché è un Dio amante della vita (cf. Sap 1,14; 11,26). L’amore per l’uomo non è in alternativa a quello per Dio, ma scaturisce da esso come dalla sua sorgente. Si ama veramente il prossimo solo quando lo si aiuta a diventare se stesso, raggiungendo il fine per cui è stato creato, che è quello di amare Dio sopra ogni cosa e il prossimo come se stesso. Alla luce di questa verità, dobbiamo rivedere radicalmente il nostro modo di amare: molto del cosiddetto amore, che schiavizza sé e gli altri, è una contraffazione dell’amore, è egoismo. Quanta purificazione, quanta grazia di Dio occorrono perché l’amore sia vero amore!
------------

martedì 2 giugno 2015

Nutriamoci della Parola di Dio di mercoledì 3 giugno 2015

Dal Vangelo secondo Marco (12,18-27)
In quel tempo, vennero a Gesù dei sadducei, i quali dicono che non c'è risurrezione, e lo interrogarono dicendo: “Maestro, Mosè ci ha lasciato scritto che se muore il fratello di uno e lascia la moglie senza figli, il fratello ne prenda la moglie per dare discendenti al fratello. C'erano sette fratelli: il primo prese moglie e morì senza lasciare discendenza; allora la prese il secondo, ma morì senza lasciare discendenza; e il terzo egualmente, e nessuno dei sette lasciò discendenza. Infine, dopo tutti, morì anche la donna. Nella risurrezione, quando risorgeranno, a chi di loro apparterrà la donna? Poiché in sette l'hanno avuta come moglie”. Rispose loro Gesù: “Non siete voi forse in errore dal momento che non conoscete le Scritture, né la potenza di Dio? Quando risusciteranno dai morti, infatti, non prenderanno moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli. A riguardo poi dei morti che devono risorgere, non avete letto nel libro di Mosè, a proposito del roveto, come Dio gli parlò dicendo: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e di Giacobbe? Non è un Dio dei morti ma dei viventi! Voi siete in grande errore”.

COMMENTO AL VANGELO - P. LINO PEDRON
Anche i sadducei contestano Gesù: essi non credono alla risurrezione dei morti. La risposta di Gesù considera due momenti. Anzitutto egli fonda la fede nella risurrezione sul rapporto che Dio ha stabilito con gli uomini: un rapporto di alleanza, di amicizia, di solidarietà, di vita. Dio non è impotente di fronte alla morte, «non è il Dio dei morti, ma dei viventi» (v. 27).
Citando Esodo 3, che è un testo su Dio e non sulla risurrezione dei morti, Gesù riconduce il dibattito all’amore di Dio e alla sua fedeltà: se Dio ama l’uomo non può abbandonarlo in potere della morte.
Gesù inoltre corregge l’altro errore dei sadducei che pensano alla risurrezione come a una semplice continuazione della vita attuale, con gli stessi tipi di rapporti. Pensando in questo modo, essi non tengono conto della «potenza di Dio» (v. 24).
La risurrezione non è una semplice continuazione della vita attuale, ma il passaggio a una vita nuova, creata dalla potenza di Dio. Non è la rianimazione di un cadavere: è una trasformazione qualitativa, è una nuova esistenza.
La nostra risurrezione è il centro della vita cristiana. Senza di essa « è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede» scrive Paolo ai Corinti (1Cor 15,14).
I sadducei assomigliano a tanti credenti del nostro tempo. Credono in Dio, ma non nella risurrezione dei morti. Chiusi nel materialismo, non credono, né teoricamente né praticamente, al fine a cui Dio ci ha destinati: la vita eterna. E’ l’alienazione più tragica dell’uomo, che perde ciò per cui è fatto, l’orizzonte che dà senso alla vita. Tentare di superare la morte attraverso la generazione dei figli è un rimedio peggiore del male, una vittoria illusoria, perché non si fa che accrescere il numero dei destinati alla morte.
La generazione dei figli ha senso solamente nella speranza che questi «destinati alla morte» incontrino Dio che dà loro la vita nella risurrezione.
-----

Nutriamoci della Parola di dio di martedì 2 giugno 2015

Dal Vangelo secondo Marco 12,13-17. 
In quel tempo, i sommi sacerdoti, gli scribi e gli anziani mandarono a Gesù alcuni farisei ed erodiani per coglierlo in fallo nel discorso. E venuti, quelli gli dissero: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e non ti curi di nessuno; infatti non guardi in faccia agli uomini, ma secondo verità insegni la via di Dio. E' lecito o no dare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare o no?». Ma egli, conoscendo la loro ipocrisia, disse: «Perché mi tentate? Portatemi un denaro perché io lo veda». Ed essi glielo portarono. Allora disse loro: «Di chi è questa immagine e l'iscrizione?». Gli risposero: «Di Cesare». Gesù disse loro: «Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio». E rimasero ammirati di lui. 

« Di chi è questa immagine ? » 
Anima, cercati in me, E, cercami in te. 
L’amore è arrivato a tanto, a riprodurti in me, o Anima, che nemmeno il più grande pittore potrebbe, con tanto talento, disegnare una tale immagine. 
Per amore fosti creata, bella, bellissima, e per questo dipinta nelle mie viscere, se ti perdessi, amata mia, dovresti cercarti in me. 
Perché so che troverai nel fondo del mio cuore il tuo ritratto, dipinto in modo così rassomigliante che, vedendoti, ti rallegrerai di vederti così splendidamente dipinta. 
Se per caso, non sapessi in quale luogo trovarmi, non andare di qua e di là, ma, se vuoi trovarmi, cercami in te. 
Poiché sei il mio focolare, la mia casa, la mia dimora, Chiamo, in ogni momento, se trovo chiusa la porta del tuo pensiero. 
Fuori di te, non cercarmi, poiché per trovarmi, basta che mi chiami; e a te verrò senz'indugio. Cercami in te. 
Santa Teresa d'Avila
----

Messaggio di Medjugorje a Mirjana del 2 giugno 2015

Cari figli, 
desidero operare per mezzo di voi, miei figli, miei apostoli, affinché alla fine possa radunare tutti i miei figli là dove tutto è preparato per la vostra felicità. 
Prego per voi, affinché con le opere possiate convertire, perché è arrivato il tempo per le opere della verità, per mio Figlio. 
Il mio amore opererà in voi, mi servirò di voi. 
Abbiate fiducia in me, perché tutto quello che desidero, lo desidero per il vostro bene, l’eterno bene, creato per mezzo del Padre Celeste. 
Voi, figli miei, apostoli miei, vivete la vita terrena in comunità con i miei figli che non hanno conosciuto l’amore di mio Figlio, coloro i quali non mi chiamano madre. 
Non abbiate però paura a testimoniare la verità, perché se voi non avete paura e testimoniate con coraggio, la verità miracolosamente vincerà.
Ricordate: la forza è nell'amore. 
Figli miei, l’amore è pentimento, perdono, preghiera, sacrificio e misericordia, perché se saprete amare con le opere convertirete gli altri, permetterete che la luce di mio Figlio penetri nelle anime. 
Vi ringrazio. 
Pregate per i vostri pastori, loro appartengono a mio Figlio. Lui li ha chiamati. Pregate affinché sempre abbiano la forza e il coraggio di brillare della luce di mio Figlio.
------